Prologo
Palmira, intorno al 385 d. C.
«Non esiste crimine per chi ha Cristo».
Scenute d’Atripe, santo
I distruttori venivano dal deserto, e Palmira era la loro meta. Da anni
bande di fanatici barbuti vestiti di nero e dediti al saccheggio, armati con poco
più che pietre, sbarre di ferro e un inflessibile senso di rettitudine morale,
stavano terrorizzando i territori orientali dell’Impero romano.
I loro attacchi erano primitivi, teppistici e molto efficaci. Questi uomini
si muovevano in branchi — che di lì a poco
sarebbero diventati sciami composti da cinquecento individui — e
dove arrivavano portavano devastazione. I loro obiettivi erano i templi e i
loro attacchi potevano essere straordinariamente rapidi. Grandi colonne di
pietra che avevano resistito per secoli crollavano in un pomeriggio; volti di
statue vecchie di mezzo millennio venivano mutilati in un battito di ciglia;
templi che avevano visto nascere l’impero cadevano in un solo giorno.
Si trattava di un’operazione brutale, priva di qualunque rispetto. I
fanatici scoppiavano a ridere mentre spaccavano quelle statue “idolatre” e
“malvagie”; i fedeli si prendevano gioco di quei resti mentre demolivano i
templi, sfasciavano i tetti, deturpavano le statue e intonavano canti che
avrebbero immortalato quei momenti gloriosi. «Quegli oggetti sacrileghi»,
cantavano i pellegrini orgogliosi, «quei demoni e idoli.., il nostro buon
Salvatore li ha calpestati». Raramente il fanatismo produce buona
poesia.
Catherine Nixey
Nel nome della Croce
La distruzione cristiana del mondo classico
Bollati Boringhieri, Torino, 2018