Corriere della Sera 6.1.09
Dispute Due saggi sulla caduta dell'impero con tesi opposte. Si riapre il dibattito cominciato da Gibbon
Fine di Roma: crollo o evoluzione?
Bryan Ward-Perkins: sparì la civiltà. Peter Wells: no, la cultura continuò
di Antonio Carioti
La caduta dell'impero romano d'Occidente (476 d.C.) ha sempre affascinato gli storici. Nel Settecento l'inglese Edward Gibbon le dedicò un'indagine minuziosa, sostenendo che il cristianesimo era stato il fattore principale del crollo. Ma il dibattito sulle cause del tramonto di Roma non si è mai interrotto, tanto che anni fa lo studioso tedesco Alexander Demandt stilò un elenco di 210 ragioni (dalla crisi di legittimità al surriscaldamento delle terme frequentate dalla classe dirigente) indicate di volta in volta dagli storici per spiegare il traumatico evento. Nella fervida discussione sui motivi, tra gli antichisti di vecchio stampo c'era però un consenso generale sulla gravità del disastro: «Uno stacco si verificò, senza dubbio, violento come un urto di continenti », scriveva Santo Mazzarino, uno dei maggiori studiosi di storia romana, nel saggio del 1959 La fine del mondo antico,
ora riedito da Bollati Boringhieri (pp. 217, € 14).
Poi però nel 1971 lo storico irlandese Peter Brown mise al bando le idee di decadenza e crollo, affermando che c'era stata piuttosto una grande trasformazione, cominciata sotto il tardo impero e proseguita dopo le invasioni barbariche, senza rotture brusche, in un clima di sostanziale continuità. Una tesi che si è fatta strada fino a diventare quasi egemone al giorno d'oggi. Per esempio lo studioso canadese Walter Goffart ha criticato il concetto stesso di «invasioni barbariche»: a suo avviso furono i romani a consentire lo stanziamento dei popoli nordici entro i confini dell'impero, anche se poi quell'esperimento d'inclusione andò «un po' fuori controllo».
Espressione di questa corrente storiografica è il libro dell'americano Peter S. Wells Barbarians to Angels, appena tradotto da Lindau con il più prudente titolo Barbari (pp. 241, € 19). Qui i famigerati «secoli bui» — dal V fino all'VIII, che segnò con Carlo Magno la «rinascita carolingia» — sono presentati come «un'epoca tutt'altro che senza luce», anzi «ricca di una brillante attività culturale». All'opposto Bryan Ward-Perkins, docente a Oxford, nel polemico saggio La caduta di Roma e la fine della civiltà (Laterza, pp. 293, € 19,50) vuole dimostrare che «gli effetti a lungo termine del crollo dell'impero furono drammatici», se non altro perché «l'arte, la filosofia e le buone fognature sparirono tutte dall'Occidente».
Eppure le due opere svolgono le rispettive argomentazioni partendo da una premessa comune. Wells osserva che per ricostruire la fine dell'impero non ci si può basare sui testi antichi giunti fino a noi, perché gli autori latini dell'epoca (come san Girolamo o Gregorio di Tours) avevano una visione romanocentrica, quindi catastrofista, smentita dalle acquisizioni dell'archeologia moderna. Ma Ward-Perkins accetta la sfida, nel senso che anch'egli si basa in prevalenza sui reperti archeologici, dai quali però ricava conclusioni assai diverse.
Per esempio entrambi gli autori constatano la scomparsa, una volta caduto l'impero, dei grandi edifici di pietra con tetti in tegole. Ma se per Ward-Perkins questa è la prova di un rovinoso declino dell'edilizia abitativa, Wells ribatte che si trattò semmai di un mutamento nel modo di realizzare le costruzioni, con l'utilizzo di materiali deperibili come il legno, che non implicò affatto lo spopolamento delle città e il collasso dell'economia. I vasti e spessi strati di terriccio scuro che si trovano nei siti urbani, fitti di resti «certamente databili dopo il periodo imperiale», dimostrano a suo parere che quei luoghi rimasero densamente abitati e pulsanti di attività anche in epoca post romana.
Inoltre Wells sottolinea che nelle tombe dei re barbari come il franco Childerico, vissuto nel V secolo, si trovano armi e gioielli di gran pregio, che solo una civiltà raffinata poteva offrire. Ward-Perkins replica però che non bisogna guardare a simili «oggetti d'élite, prodotti o importati per i più alti livelli della società»: l'attenzione va rivolta agli «articoli di buona qualità e a basso prezzo». Per esempio il vasellame, abbondantissimo sotto l'impero e poi quasi sparito, tanto che i ritrovamenti passano da «montagne di ceramica romana» a «qualche scatola di cocci», per giunta «privi di ogni finezza funzionale o estetica», dell'epoca barbarica.
Altri fenomeni riscontrati negli scavi sembrano confortare Ward-Perkins. Uno è la scomparsa degli spiccioli: le monetine di rame non vengono più coniate in Occidente a partire dal VI secolo, con l'unica eccezione delle aree dominate dai bizantini, dal che si deduce una drastica riduzione degli scambi economici. Altrettanto significativo è il venir meno della scrittura nella vita quotidiana. I graffiti di età romana spesso si riferiscono a piccole transazioni commerciali o a episodi banali: tipico il caso del cliente di un postribolo che manifesta per iscritto il suo gradimento per la prestazione ricevuta. Caduto l'impero, i testi scritti si fanno molto più rari e riguardano tutti «documenti formali, destinati a durare». Un chiaro sintomo che l'alfabetizzazione era diventata appannaggio di una ristretta élite.
Tutto ciò induce Ward-Perkins a parlare di regresso culturale e «disintegrazione economica », con annessa «una brusca caduta della produzione alimentare». E qui il contrasto tra i due autori si fa stridente, perché Wells esalta invece «lo sviluppo di una nuova tecnologia agricola — basata sull'adozione dell'aratro pesante a ruota — capace d'incrementare in modo esponenziale l'efficienza nella produzione di cibo, come mai era stato possibile ottenere ai tempi di Roma».
A volte ci si stupisce di quanto sia arduo scrivere una storia condivisa del secolo scorso, ma in fondo le difficoltà sono anche maggiori quando si tratta di avvenimenti trascorsi da un millennio e mezzo.
Dispute Due saggi sulla caduta dell'impero con tesi opposte. Si riapre il dibattito cominciato da Gibbon
Fine di Roma: crollo o evoluzione?
Bryan Ward-Perkins: sparì la civiltà. Peter Wells: no, la cultura continuò
di Antonio Carioti
La caduta dell'impero romano d'Occidente (476 d.C.) ha sempre affascinato gli storici. Nel Settecento l'inglese Edward Gibbon le dedicò un'indagine minuziosa, sostenendo che il cristianesimo era stato il fattore principale del crollo. Ma il dibattito sulle cause del tramonto di Roma non si è mai interrotto, tanto che anni fa lo studioso tedesco Alexander Demandt stilò un elenco di 210 ragioni (dalla crisi di legittimità al surriscaldamento delle terme frequentate dalla classe dirigente) indicate di volta in volta dagli storici per spiegare il traumatico evento. Nella fervida discussione sui motivi, tra gli antichisti di vecchio stampo c'era però un consenso generale sulla gravità del disastro: «Uno stacco si verificò, senza dubbio, violento come un urto di continenti », scriveva Santo Mazzarino, uno dei maggiori studiosi di storia romana, nel saggio del 1959 La fine del mondo antico,
ora riedito da Bollati Boringhieri (pp. 217, € 14).
Poi però nel 1971 lo storico irlandese Peter Brown mise al bando le idee di decadenza e crollo, affermando che c'era stata piuttosto una grande trasformazione, cominciata sotto il tardo impero e proseguita dopo le invasioni barbariche, senza rotture brusche, in un clima di sostanziale continuità. Una tesi che si è fatta strada fino a diventare quasi egemone al giorno d'oggi. Per esempio lo studioso canadese Walter Goffart ha criticato il concetto stesso di «invasioni barbariche»: a suo avviso furono i romani a consentire lo stanziamento dei popoli nordici entro i confini dell'impero, anche se poi quell'esperimento d'inclusione andò «un po' fuori controllo».
Espressione di questa corrente storiografica è il libro dell'americano Peter S. Wells Barbarians to Angels, appena tradotto da Lindau con il più prudente titolo Barbari (pp. 241, € 19). Qui i famigerati «secoli bui» — dal V fino all'VIII, che segnò con Carlo Magno la «rinascita carolingia» — sono presentati come «un'epoca tutt'altro che senza luce», anzi «ricca di una brillante attività culturale». All'opposto Bryan Ward-Perkins, docente a Oxford, nel polemico saggio La caduta di Roma e la fine della civiltà (Laterza, pp. 293, € 19,50) vuole dimostrare che «gli effetti a lungo termine del crollo dell'impero furono drammatici», se non altro perché «l'arte, la filosofia e le buone fognature sparirono tutte dall'Occidente».
Eppure le due opere svolgono le rispettive argomentazioni partendo da una premessa comune. Wells osserva che per ricostruire la fine dell'impero non ci si può basare sui testi antichi giunti fino a noi, perché gli autori latini dell'epoca (come san Girolamo o Gregorio di Tours) avevano una visione romanocentrica, quindi catastrofista, smentita dalle acquisizioni dell'archeologia moderna. Ma Ward-Perkins accetta la sfida, nel senso che anch'egli si basa in prevalenza sui reperti archeologici, dai quali però ricava conclusioni assai diverse.
Per esempio entrambi gli autori constatano la scomparsa, una volta caduto l'impero, dei grandi edifici di pietra con tetti in tegole. Ma se per Ward-Perkins questa è la prova di un rovinoso declino dell'edilizia abitativa, Wells ribatte che si trattò semmai di un mutamento nel modo di realizzare le costruzioni, con l'utilizzo di materiali deperibili come il legno, che non implicò affatto lo spopolamento delle città e il collasso dell'economia. I vasti e spessi strati di terriccio scuro che si trovano nei siti urbani, fitti di resti «certamente databili dopo il periodo imperiale», dimostrano a suo parere che quei luoghi rimasero densamente abitati e pulsanti di attività anche in epoca post romana.
Inoltre Wells sottolinea che nelle tombe dei re barbari come il franco Childerico, vissuto nel V secolo, si trovano armi e gioielli di gran pregio, che solo una civiltà raffinata poteva offrire. Ward-Perkins replica però che non bisogna guardare a simili «oggetti d'élite, prodotti o importati per i più alti livelli della società»: l'attenzione va rivolta agli «articoli di buona qualità e a basso prezzo». Per esempio il vasellame, abbondantissimo sotto l'impero e poi quasi sparito, tanto che i ritrovamenti passano da «montagne di ceramica romana» a «qualche scatola di cocci», per giunta «privi di ogni finezza funzionale o estetica», dell'epoca barbarica.
Altri fenomeni riscontrati negli scavi sembrano confortare Ward-Perkins. Uno è la scomparsa degli spiccioli: le monetine di rame non vengono più coniate in Occidente a partire dal VI secolo, con l'unica eccezione delle aree dominate dai bizantini, dal che si deduce una drastica riduzione degli scambi economici. Altrettanto significativo è il venir meno della scrittura nella vita quotidiana. I graffiti di età romana spesso si riferiscono a piccole transazioni commerciali o a episodi banali: tipico il caso del cliente di un postribolo che manifesta per iscritto il suo gradimento per la prestazione ricevuta. Caduto l'impero, i testi scritti si fanno molto più rari e riguardano tutti «documenti formali, destinati a durare». Un chiaro sintomo che l'alfabetizzazione era diventata appannaggio di una ristretta élite.
Tutto ciò induce Ward-Perkins a parlare di regresso culturale e «disintegrazione economica », con annessa «una brusca caduta della produzione alimentare». E qui il contrasto tra i due autori si fa stridente, perché Wells esalta invece «lo sviluppo di una nuova tecnologia agricola — basata sull'adozione dell'aratro pesante a ruota — capace d'incrementare in modo esponenziale l'efficienza nella produzione di cibo, come mai era stato possibile ottenere ai tempi di Roma».
A volte ci si stupisce di quanto sia arduo scrivere una storia condivisa del secolo scorso, ma in fondo le difficoltà sono anche maggiori quando si tratta di avvenimenti trascorsi da un millennio e mezzo.