venerdì 22 febbraio 2008

A TARGHE ALTERNE NELLA ROMA DEI CESARI

La stampa, tuttolibri, 01-02-1992, pag.5
Sabatino MOSCATI
A TARGHE ALTERNE NELLA ROMA DEI CESARI
Uno studio sull' inquinamento del mondo antico
SI dice che l' inquinamento sia una conseguenza della "civilta'" contemporanea. Lo si attribuisce (giustamente) ai gas di scarico delle automobili, alle ciminiere degl' impianti industriali, insomma ai fenomeni propri del nostro tempo. Si rimpiange, di conseguenza, il buon tempo antico, quando tutte queste diavolerie non esistevano e l' uomo godeva serenamente il benessere di una natura incontaminata. Ma tutto questo e' vero? Seneca contro i miasmi Consideriamo il caso di una citta' ANTICA, anzi della citta' per eccellenza: ROMA di duemila anni fa. Non v' erano certo automobili, ne' industrie; ma che l' aria fosse migliore, e l' igiene piu' curata, non diremmo davvero. Seneca, ad esempio, descrive l' aria pesante che gravava sulla citta', per una mistura degli odori che uscivano dalle cucine fumose e delle nuvole di polvere che si levavano dalle strade. Se il vento soffiava in una certa direzione, giungevano anche i fumi delle pire in cui, alle porte dell' abitato, si bruciavano i cadaveri. E i germi piu' vari, a partire da quelli della malaria, la facevano da padroni. Faccia pallida e colore spento: cosi' ci vengono descritti i cittadini ROMAni di allora. Qualcuno, e' vero, aveva i mezzi economici per recarsi di tanto in tanto in campagna, dove era grande il ristoro. Ma l' effetto durava poco, come osserva Marziale: . Ne' giovavano certo, contro una situazione stressante, i rumori che si levavano d ' ogni parte: il fracasso dei cantieri edili, lo scarico dei carri, gli schianti e i cigolii dei veicoli che sobbalzavano sul selciato, le urla della gente che si raccoglieva intorno ai saltimbanchi, le voci dei venditori che offrivano le loro merci. Di notte, poi, era peggio ancora: perche' si rischiava di prendersi sul capo le immondizie gettate dalle finestre, mentre bande di malfattori infestavano le strade senza illuminazione. Non era una bella esistenza, insomma. Ed era un' esistenza ben piu' corta della nostra, perche' in citta' si viveva in media dai venti ai trent' anni, se sono vere certe statistiche recenti a cui si riferisce Karl Wilhelm Weeber nel suo affascinante libro Smog sull' Attica. I problemi ecologici nell' antichita' (Garzanti, pp. 176, L. 18. 000) Secondo le stesse statistiche, invece, la media della vita saliva nelle province a trentacinque anni: un po' meglio, dunque, anche se sul fortissimo dislivello rispetto a noi pesa la ben diversa situazione sanitaria. A proposito di quest' ultima, una fonte di inquinamento diretto, che agiva attraverso l' alimentazione, era il piombo: se anche e' esagerato attribuire ad esso la decadenza dell' impero ROMAno, come hanno fatto alcuni autori, certo e' che la sua influenza fu nefasta. Anzitutto nel vino: i dolcificanti che si aggiungevano nel prepararlo erano cotti in recipienti di piombo, e questo si scioglieva in parte nella mistura. Un grande medico, Dioscoride, osservo' che la dolcificazione del vino poteva produrre mal di testa, nausea e dolore di stomaco; ma non collego' quei sintomi all' avvelenamento da piombo. Un' altra fonte dello stesso inquinamento erano le tubature di piombo attraverso cui scorreva l' acqua potabile. Bisogna attendere Vitruvio, al tempo di Augusto, perche' il pericolo sia percepito: "L' acqua che passa per tubazioni di argilla e' piu' sana di quella immersa in tubature di piombo.. Se vogliamo avere dell' acqua che sia benefica alla salute, appare del tutto inopportuno incanalarla in tubature di piombo". Avvelenati dal piombo Ma altro era sospettare, altro dimostrare. E cosi' si continuo' a far uso del pericoloso metallo con tutta tranquillita'. Anzi, se ne estese l' impiego alla medicina, fondendolo come astringente e cicatrizzante; e la biacca da esso derivata fu largamente in uso per il trucco femminile, con quale danno della pelle e' facile immaginare. Si osservi che il vino, i cosmetici e simili ingredienti della vita quotidiana erano piu' disponibili per i ricchi che per i poveri. Donde una conseguenza significativa: secondo studi recenti, la quantita' di piombo che i ROMAni assumevano quotidianamente era in media di 250 microgrammi per gli aristocratici, 35 per i plebei, 15 per gli schiavi. Una differenza davvero illuminante] Altri aspetti della vita ANTICA contrastano non meno con le norme oggi abituali dell' ecologia. Il disboscamento era sfrenato, anzi lo si considerava un' opera meritoria per rendere piu' fertile la terra: nel suo trattato sull' agricoltura, Columella scrive che "i terreni vergini delle selve, dopo il disboscamento e la prima lavorazione, garantiscono una grande produzione di frutti". E Tertulliano, con compiacimento: "I boschi hanno ceduto ai campi, gli animali selvatici sono stati scacciati da quelli ammansiti". Un' altra fonte di degrado era l' incontrollata attivita' estrattiva. Si possono vedere ancor oggi i fianchi delle montagne scavati e rimasti aperti, i cumuli di detriti abbandonati, i letti di fiumi deviati. La deturpazione era tale che qualche antico scrittore se ne rendeva conto, come Plinio: "Tentiamo di raggiungere le fibre intime della terra e viviamo sopra le cavita' che vi abbiamo prodotto, meravigliandoci che talvolta essa si spalanchi o si metta a tremare, come se cosi' non si esprimesse l' indignazione della nostra sacra genitrice". Ma sono voci rare e isolate, di fronte a una cultura ambientale inesistente. Non solo le citta', dunque, erano afflitte dalla deturpazione della natura e dall' alterazione delle sue risorse, ma anche le campagne. E percio' , in conclusione, la causa del degrado ambientale non e' tanto il progresso tecnologico, come abitualmente si sostiene, quanto la mancanza di una coscienza ecologica, anzi della nozione stessa del problema. Tutto sommato, noi stiamo meglio: abbiamo l' inquinamento ma abbiamo anche le centraline che lo rilevano e la possibilita' di combatterlo. Senza voler fare l' elogio delle targhe alterne, s' intende. Sabatino Moscati

lunedì 18 febbraio 2008

La Lupa non viene dall’Antica Roma

La Lupa non viene dall’Antica Roma

La Repubblica del 17 novembre 2006, pag. 1

di Adriano La Regina

Opera d'arte celeberrima, simbolo di Roma e rappresentazione emblematica delle sue origini leggendarie, la Lupa capitolina è da sempre considerata uno dei capolavori dell'antichità. Compare nei manuali di storia dell'arte come oggetto di produzione etrusca.

Già attribuita a Vulca, il grande scultore di Veio chiamato a Roma nel tardo VI secolo per decorare il tempio di Giove capitolino, la Lupa è stata più di recente giudicata opera di un artista veiente della generazione successiva, il quale l'avrebbe plasmata e fusa tra gli anni 480-470 avanti Cristo. È invece noto da tempo che i gemelli sono stati aggiunti nel 1471 o poco dopo quando il bronzo, donato da Sisto IV alla città di Roma, fu trasferito dal Laterano sul Campidoglio.

Ora ci viene dimostrato, con argomenti inoppugnabili, che neanche la Lupa è antica. Per caratteristiche tecniche essa si inserisce infatti coerentemente nella classe della grande scultura bronzea d'epoca medievale, mentre per qualità formali può essere attribuita ad un periodo compreso tra l'età carolingia e quella propria dell'arte romanica.

Nel 1997 il restauro della scultura fu affidato ad Anna Maria Carruba, una storica dell'arte restauratrice che da anni si dedica alla conservazione di bronzi antichi, la quale ha svolto accurate indagini intese anche a determinare la tecnica di fusione. Ne risultò che la scultura era stata fusa a cera persa col metodo diretto effettuato in un solo getto. Questa tecnica si evolve e si raffina in età medievale al punto di consentire la fusione di grandi bronzi, anche per l'esigenza di fondere le campane senza saldature e difetti, onde ottenerne purezza di suoni.

I bronzi d'epoca antica, greci, etruschi e romani, si distinguono da quelli medievali per la fusione in parti separate, poi saldate tra loro. Secondo la tradizione Rhoikos e Theodoros, due scultori greci del VI secolo a. C., "i primi a liquefare il bronzo ed a fondere statue" nelle parole di Pausania, avrebbero trovato il modo di ottenere le fusioni più accurate. La loro innovazione può essere riconosciuta, e questo è un altro importante contributo originale di Anna Maria Carruba, non nell'invenzione della fusione, già nota da tempo per la piccola plastica, ma piuttosto nella scoperta della tecnica della saldatura di parti fuse separatamente mediante l'impiego di altro bronzo come materiale saldante, definita "brasatura forte".

La tecnica adottata dal mondo greco, poi introdotta in Etruria ed a Roma, risulta estremamente più duttile nella costruzione dei volumi e dei sottosquadri, consentendo così di raggiungere risultati di grande ardimento compositivo e superando i limiti di stabilità imposti persino dal marmo, il più nobile dei materiali lapidei. Consente inoltre di ottenere livelli di qualità finissima nel plasmare le superfici, ed assicura infine un beneficio non secondario nel ridurre i rischi di fallimento durante i processi di fusione.

La tecnica medievale di fusione in un solo getto comporta invece l'adozione di forme ben più rigide, meno libere nello spazio, ma con indubbi vantaggi sotto il profilo funzionale, com'è nel caso delle campane; solamente nel Rinascimento si sarebbero raggiunti con l'impiego di questa tecnica, ed è celebre l'esempio del Perseo di Cellini, risultati per qualità paragonabili a quelli che in antico erano stati ottenuti con la fusione in parti separate.

La Lupa capitolina ha occupato una strana posizione nella storia dell'arte. Se si escludono alcuni studiosi dimenticati del XIX secolo, i quali ne avevano intuito l'origine medievale senza tuttavia dimostrarla, il contributo critico che oggi possiamo considerare il più importante tra quelli del Novecento è senz'altro dovuto ad Emanuel Ltwy, che basandosi solamente sull'analisi dei caratteri formali già nel 1934 escludeva la possibilità di attribuire la scultura alla produzione artistica etrusco-italica.

La critica si è però prevalentemente orientata, dapprima con qualche riluttanza e poi più decisamente, verso una sua collocazione nel mondo antico, individuandone la provenienza di volta in volta in ambienti della Magna Grecia, di Roma, dell'Etruria. Nella prima metà del Novecento con Giulio Quirino Giglioli, in un clima di entusiasmo per la scoperta dell'Apollo di Veio e di rampante nazionalismo, la Lupa "minacciosamente pronta a tutelare il popolo che la venerava" fu considerata opera di Vulca.

Maggior consenso è stato riscosso da Friedrich Matz (1951), il quale ha attribuito la scultura al decennio 480-470 avanti Cristo. Questa datazione perdura stranamente anche dopo l'acquisizione dei nuovi dati. Nel 2000, in occasione della sua presentazione dopo il restauro, la Lupa capitolina veniva ancora dichiarata senza alcuna esitazione, nella pubblicazione curata dai Musei Capitolini, il prodotto di una officina veiente degli anni 480-470. E quanto mai singolare che nel caso di un'opera di così ardua e sofferta classificazione siano rimaste inascoltate le indicazioni provenienti dalle indagini sulla tecnica di fusione eseguite durante il restauro.

Anna Maria Carruba ha sottratto un capolavoro all'arte etrusca, restituendolo a quella medievale. Se fosse necessaria una conferma di questo risultato del suo lavoro basterebbe osservare come la storia dell'arte etrusco-italica non risenta in alcun modo della perdita: la Lupa, in quel contesto, ha costituito sempre una presenza "extra ordinem", irrazionale, estranea a qualunque forma di storicizzazione. Non a caso, infatti, a differenza di altri grandi bronzi quali la Chimera e l'Arringatore, essa ha attratto assai poco l'attenzione di coloro che negli anni recenti più si sono dedicati allo studio dell'arte etrusca. D'altra parte, la nuova datazione lascia intravedere ampie prospettive di studio.

Sono ad esempio già più facilmente comprensibili alcuni rapporti di stile quali l'innesto di forme proprie della scultura sassanide del VII-VIII secolo nell'arte romanica.

NOTE

L'autore, ex sovrintendente ai Beni archeologici di Roma, è professore di Etruscologia all'università "la Sapienza".

Una promenade nel paesaggio La desolazione dell´Agro romano "inventato" con un nuovo canone di bellezza

Una promenade nel paesaggio La desolazione dell´Agro romano "inventato" con un nuovo canone di bellezza
ANNA OTTANI CAVINA
LUNEDÌ, 11 FEBBRAIO 2008, La Repubblica

Una pittura che non vuole essere lo specchio del vero, ma elegia e ideale

A New York una grande rassegna sul pittore francese con i celebri dipinti della campagna romana

Poussin, pittore solitario e grandissimo, estraneo alla sensualità del barocco, appare per la prima volta nella sua toccante bellezza di pittore della natura: soltanto paesaggi, che al tempo della giovinezza hanno i colori smaltati della fiaba e del mito e poi le intonazioni accorate che accompagnano il destino misterioso dell´uomo.
Di un artista, che nell´area di Roma ha condotto l´intera esistenza, è possibile misurare lo scarto fra i luoghi quotidianamente vissuti e i luoghi che lui ha dipinto? A quali principi obbediva, in tema di paesaggio, il processo di depurazione dai segni del tempo e dai segni del lavoro dell´uomo se Poussin ha espresso nel modo più profondo il sentimento misterioso e panico della natura? Quel sentimento, scriveva Cézanne, che gli aveva permesso di fondere «le curve delle donne con le spalle delle colline».
I paesaggi dipinti sono fatalmente paesaggi di idee, non lo specchio di luoghi vissuti. Eppure è così forte, nella storiografia di Poussin, nelle fonti e nella leggenda, il leitmotiv della campagna romana, percorsa a piedi e a cavallo, da solo e con gli amici, da meritare qualche riflessione, se tutto questo ha avuto più tardi una cristallizzazione figurativa nella famosa Promenade de Poussin lungo le rive settentrionali del Tevere. Famosa soprattutto per l´interpretazione che ne ha dato Corot nel dipinto oggi al Louvre.
Risalendo il corso del Tevere, che a Roma entra dalle parti di Ponte Milvio, si incontrano i luoghi della Promenade de Poussin. A nord della città, il sentiero, raccontato con emozione anche da Goethe, costeggiava il fiume lungo le rive dell´Acqua Acetosa, nella zona di Tor di Quinto, non lontano dalla via Flaminia. Attraversava un paesaggio di pascoli, macchie arboree, acquitrini, rari campi coltivati aperti, secondo le forme di un sistema agrario che contemplava i campi e l´erba e dove - in pieno Seicento - il pascolo brado aveva preso il sopravvento sui terreni plasmati dal lavoro dell´uomo.
Il degrado dell´Agro Romano, riconquistato dalla palude e dalla malaria, rientrava infatti, al tempo di Poussin, in un più vasto processo di rifeudalizzazione della società italiana che favoriva il regresso verso il latifondo, verso un regime di pascoli, selve, acquitrini. Inospitale e deserto, l´Agro Romano era molto vicino a quello che Gaspard Dughet ha raffigurato negli affreschi di San Martino ai Monti, ambientando le vicende dei profeti entro scenari grandiosi dove uomini e bufali si affannano nella fatica primordiale di conquistare terreni paludosi e ingrati.
Il paesaggio dipinto da Poussin invece non voleva essere lo specchio del vero, anche se il pittore aveva frequentato e amato quei luoghi nell´arco dell´intera esistenza. Non è il paese reale, contemporaneo, quello su cui si stagliano le storie di Focione, di Diogene, di Orfeo e Euridice, di Piramo e Tisbe, dei ciechi di Gerico. La natura in Poussin non si ispira alle lande malsane e desolate, che si profilavano oltre le porte di Roma e nemmeno alle terre lavorate del paesaggio agrario italiano. Tendeva piuttosto alle forme ritmate e intatte di un paesaggio elegiaco, ideale.
Basterebbe una ricognizione botanica, anche molto sommaria, per sancire il distacco di quegli scenari dipinti dalle colline italiane popolate di viti e di ulivi, e dalle pianure del Lazio solcate da pioppi, cipressi, pini marittimi. Poussin non riflette la varietà delle speci che caratterizzano la campagna romana. Riproposto in numerose varianti, l´albero dominante è decisamente la quercia, raffigurata nella magnitudine del suo portamento o nella fragilità dei virgulti flessibili al vento. Una quercia naturale, non potata, riconoscibile nella chioma sontuosa ed espansa e nelle foglie dentate, che il pittore raffigura con qualche libertà, perché lo sguardo di Poussin non è quello di un naturalista e il suo livello di definizione non è quello della cultura scientifica, fondata sulla ricognizione analitica, sull´esattezza della percezione, sulla organizzazione dei dati rilevati dall´occhio.
Del tutto insensibile alla varietà della macchia mediterranea, la natura di Poussin è costruita sull´iterazione di un albero, utilizzato per il suo forte impatto visivo e per la sua valenza simbolica. Sacra a Giove, la quercia evocava la forza, la virtù eroica e invincibile. Presenza tangibile del divino nella natura, strumento di comunicazione fra il cielo e la terra, la quercia poteva vantare una tradizione di nobili preferenze pittoriche, da Annibale Carracci a Domenichino.
Se dunque i paesaggi di Poussin non reggono a un esame di realtà, nella loro bellezza e vastità dovevano assolvere a una funzione diversa e più alta. Non quella di sfondo modellato sul paese reale, ma quella di commentario alla storia dipinta, nonostante che, come molti pittori del Seicento, Poussin fosse mosso dal bisogno di conoscere la natura dal vivo. Lo testimoniano i suoi studi dal vero e il reportage citatissimo di un viaggiatore francese: «... Poussin... l´ho visto portarsi via in un fazzoletto dei sassi, del muschio, dei fiori e altre cose che egli intendeva dipingere esattamente dal vero». Ma non è questo il canone che regola la rappresentazione della natura in Poussin, per il quale l´esperienza visiva era inscindibile dai principi ordinatori dell´arte, dalla tensione a regolarizzare le forme. Pertanto la poesia di un luogo reale e mutevole, disegnato sul posto, viene sintetizzata sulla tela nelle forme laconiche e ricorrenti di un lessico universale, dove le costanti dei fenomeni diventano paradigmi di un alfabeto che interpreta la Natura come un insieme razionale e organico: «L´Ordine è il padre della Bellezza».
È questo lo stigma che impronta la visione della natura in Poussin, tesa a ricondurre le varianti della realtà entro i tracciati ordinati del pensiero. Una natura lontanissima dai luoghi vissuti, dai luoghi dove si abita e si lavora, dai luoghi raccontati per così dire dal basso, dalla piazza o dai campi. Prospetticamente ordinati lungo un asse il più delle volte centrale, i paesaggi dipinti da Poussin attingono una dimensione eroica e fuori dal tempo nella scansione orizzontale dei piani, ritmati dalla presenza maestosa delle querce. Le grandi querce servono a strutturare lo spazio, a contrastare l´ombra e la luce, ad ambientare il soggetto nei "modi" che gli antichi associavano alla sfera morale e a quella delle passioni. È all´interno di quella cornice simbolica che gli alberi, come le architetture, assecondano una chiave di volta in volta veemente, furiosa, austera, grave, cui la quercia offre una sagoma ciclica e ricorrente, forma quintessenziale che riassume e sublima ogni specie di albero.
Si riconferma una lettura ideale e filosofica del paesaggio in Poussin, dove il punto essenziale non è misurare la capacità di "ritrarre" la natura che stava intorno a Poussin, ma valutare piuttosto come quei luoghi, che nessuno prima aveva dipinto, nessuno dopo ha potuto vedere con occhi diversi da quelli carichi di irrealtà (ma pieni di poesia) di un pittore che, en promenade nella desolazione dell´Agro Romano, aveva "inventato" - nel quadro di Berlino - la religiosa bellezza dell´Acqua Acetosa in contrappunto alla religiosa intimità dell´angelo e di Matteo.

Lavori al Pincio Italia Nostra chiede lo stop

Lavori al Pincio Italia Nostra chiede lo stop
di Rita Smordoni
- venerdì 15 febbraio 2008, il giornale

A distanza di pochi mesi dalla cantierizzazione per il futuro mega-parking del Pincio, tornano a farsi sentire le proteste di Italia Nostra. Il presidente romano dell’associazione ambientalista, Carlo Ripa di Meana, ha rinnovato, ieri, all’amministrazione comunale, la richiesta «dell’immediata sospensione dei lavori e l’avvio di una seria progettazione dell’opera».

«Lo scempio del colle», come è stato ribattezzato dagli ambientalisti, prevede la costruzione di sette piani interrati, per un totale di 726 posti auto. Ad aggiudicarsi l’appalto del parcheggio, bandito da Atac, è stata l’impresa Sac con un’offerta di 21 milioni di euro. La durata dei lavori dovrebbe essere (obbligatorio il condizionale) di 30 mesi, mentre l’ingresso delle prime auto è previsto non prima del marzo 2010. L’impresa ha da tempo recintato l’area con un muro di lamiere verdi lungo 2 chilometri, che occupa tre quarti della sede stradale. «Un muro della vergogna - dichiara Ripa di Meana -, costruito solo per nascondere i lavori di scavo del parcheggio ed escludere dalla vista dei cittadini quanto sta accadendo. Esigiamo che la Sovrintendenza comunale riferisca, ogni settimana, sullo stato dei lavori - tuona il presidente - e che ci assicuri che il carotaggio per gli accertamenti archeologici non sia in mano ai tecnici dell’Atac, bensì a quelli della Sovrintendenza». L’associazione ha, inoltre, rilevato irregolarità nella progettazione e nell’appalto del parcheggio, che sono state illustrate dall’urbanista Antonio Tamburrino: «La Sovrintendenza ai Beni Culturali del Comune di Roma ritiene che le ricerche archeologiche non siano state esaustive e quindi ribadisce la necessità di eseguire sondaggi archeologici preventivi su tutta l’area del parcheggio. Inoltre la Sovrintendenza dichiara che “non va esclusa la possibilità che, qualora i rinvenimenti archeologici si rivelassero di particolare interesse, il progetto subisca sostanziali modifiche”. Da queste chiare prese di posizione della Sovrintendenza, condivise anche dal ministero dei Beni Culturali, si evince che il progetto del parcheggio deve essere considerato, al più, un progetto preliminare e che ciò che è stato approvato è del tutto insufficiente per aprire il cantiere». E ancora: «Non c’è traccia di verifica rispetto al Codice Urbani che impone la conservazione delle piazze nella loro integrità spaziale». Infine, come se non bastasse, esiste un serio problema idrogeologico, dovuto alla presenza di una potente falda acquifera, confermata dai sondaggi preliminari.

Per S. Anastasia sappiamo ora che fu costruita sopra il fronte della casa di Augusto

Per S. Anastasia sappiamo ora che fu costruita sopra il fronte della casa di Augusto
ANDREA CARANDINI
16 FEBBRAIO 2008, LA REPUBBLICA, ROMA

SABATO, 16 FEBBRAIO 2008

Pagina 54 - Cultura

Polemiche/ Risposta a Filippo Coarelli




Il Georadar ha individuato un monumento grande quanto un foro
La posizione del Lupercale è da sempre controversa ma ora c´è il Ninfeo



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La posizione del Lupercale da sempre è controversa e ancora lo sarà. Ogni generazione riscrive la storia, variandola, ma ripetizione non è. Era l´unico monumento famoso alla radice del Palatino verso l´Aventino. La distanza fra le due collocazioni possibili – a sinistra o a destra delle scalae Caci – e di circa 66 metri. Ha senso discutere per tanto poco? Sì, perché l´approssimazione distrugge ogni scienza (di qui la necessità dei "sistemi informativi archeologici"), e perché se il santuario si trovava a destra ha poi finito per trovarsi nella casa di Augusto, che non è poco… Ponevo anch´io il Lupercale a sinistra, ma il ritrovamento del ninfeo mi ha indotto a preferire l´ipotesi a destra. In entrambe le posizioni il Lupercale è vicino ai Templi di Vittoria e Magna Mater, per cui varie fonti che li menzionano non aiutano a discriminare fra quel sinistra o destra, Dionigi compreso. Solo Velleio farebbe propendere per la sinistra, ma esiste Servio – Coarelli non lo cita – che riporta il Lupercale a destra. Infatti lo colloca in Circo, cioè (sul Palatino) rivolto al Circo. Se prolunghiamo verso valle l´asse delle scalae Caci, il Circo si trova completamente a destra, per cui anche a destra dovrebbe stare il Lupercale (ma esistono anche altri suoi nessi con il Circo). Velleio va dunque interpretato. Del ninfeo già sapevamo, ma il ritrovamento offre nuovi dati: collocazione, quota profonda, costruzione nel tufo naturale: elementi importanti… Nelle res gestae Augusto elenca le sue "nuove opere", fra cui il Lupercale, da lui fatto più che rifatto. E poi Dionigi scrive del santuario: "Il bosco non sussiste più, ma si indica ancora la grotta, una costruzione aggiunta, addossata al Palatino". Il dettaglio, generalmente tralasciato, bene si accorda con il ninfeo risuscitato. Non una grotta dobbiamo dunque cercare, ma una costruzione dove un tempo era stato il primitivo antro. Le iconografie del Lupercale mostrano sovente una grotticella, ma si tratta di quella in cui era alloggiata l´effigie della lupa coi gemelli, la quale si trovava in un "recinto" che Dionigi distingue dalla grotta con fonte (la "costruzione aggiunta"). Con M. de Vos, dato la decorazione agli anni al 40-20 a. C. Nulla c´entrano gli imperatori giulio-claudi, Nerone compreso, la cui domus non raggiungeva la radice del monte. L´aquila che orna il ninfeo è frequente nell´iconografia del Lupercale, ma potrebbe anche rimandare ad Augusto. Vedo quindi male un privato. L´ipotesi della Soprintendenza e mia, già di Lanciani, non è dunque "screditata", per cui possiamo ancora preferirla, portandone le conseguenze critiche fino in fondo, come si fa con un esperimento: solo scavi potranno confermarla o smentirla. Se così non fosse non ci spiegheremmo questo Coarelli del 1996: "Il tipo di decorazione (del ninfeo) non esclude affatto l´identificazione (col Lupercale)".
Delle mie scoperte tra Palatino e Foro Coarelli nomina solo le interpretazioni, senza proporne di alternative. La grande magione rinvenuta nel Santuario di Vesta (750-600 a. C.) conferma la sua ipotesi sulla domus Regia di Numa e Anco Marcio in quel luogo, ma se vi sia accordo o disaccordo non arrivo ancora a capire. Per il Quirinale e il Tempio di Quirino non è tanto importante quanto fosse esteso il colle al tempo della città. Conta piuttosto quale fosse l´arce più antica e sacralmente significativa, che ragionevolmente è da porre presso il colle Salutare più che in periferia. Il politeismo romano e il dio Quirino sono evidentemente più antichi della città, per cui bisogna tener conto della realtà proto-urbana, non solo di quella arcaica. Grazie alle prospezioni elettromagnetiche abbiamo individuato quest´arce, distinta tra valli, e su di essa il Georadar ha rilevato tracce di un monumento grande quanto un foro. Cos´altro potrebbe essere se non il complesso cesariano-augusteo di Quirino? E poi vi è l´iscrizione a Quirino… Conclude: "La posizione al tempio… va riconosciuta nell´area di Palazzo Barberini", dichiarazione alquanto apodittica… In Cercando Quirino (Einaudi) ho presentato la localizzazione ai Cavalieri di Malta del Tempio di Diana sull´Aventino. Tutti gli indizi utili a collocare i frammenti della pianta marmorea Severiana, al contrario di quanto sostiene Coarelli, provengono da Sant´Alessio (per noi il Tempio di Minerva) e Santa Sabina: vasi attici arcaici integri, torso arcaizzante, statuetta di Diana, iscrizione (D) iana… Inoltre il tempio con quello di Minerva erano in arce – cioè sull´Aventino lungo il Tevere, punto più alto del monte, dove oggi stanno le chiese. Infine la Chiesa di Anastasia non si data a Damaso (366-384 d. C.), che non fonda la chiesa ma semplicemente la orna di pitture, per cui rappresenta meramente un terminus ante quem. Solo ora sappiamo che venne costruita sopra il fronte della casa di Augusto, per cui bisogna pensare a una commissione imperiale. Conosce Coarelli committente più persuasivo di Anastasia, sorella di Costantino, il costruttore delle chiese più antiche di Roma? Inoltre la chiesa è legata al Natale originario, che le fonti datano tra il 325 (Concilio di Nicea, dove si tratta della Pasqua, non del Natale) e il 335 (Depositio Martyrum). Siamo al tempo dell´ultima visita di Costantino a Roma nel 326 (su Lupercale, casa di Augusto e chiesa di Anastasia rimando a un mio prossimo libro Laterza).
Faccio prospezioni, scavo, pubblico relazioni di scavo, scrivo saggi, parlo alla gente tramite lezioni e media: è il mio piacere e anche un dovere. Dubitare sempre dobbiamo – ben poco è certo, e il resto è solamente più o meno improbabile (anche le leggi naturali sono probabilistiche), eppure al tempo stesso non possiamo evitare di fare scelte critiche e quindi di anche di rischiare, se vogliano ricostruire e narrare, e queste preferenze abbiamo l´onere di motivare e difendere, finché ci crediamo. Da venti anni Coarelli tace sulle mie ricerche, che invece dovrebbe discutere in ambito scientifico. Se il "bombardamento mediatico" lo ha spinto finalmente ad esprimersi sui deprecati media, eccone la comprovata l´utilità. E non è forse un bene che Roma antica sia tornata a interessare l´occidente, anzi il globo? Se la mia curiosità per il totemismo viene ricambiata dall´attenzione ai monumenti di Roma di un Australiano, e mi convincessi di aver recato un contributo in tal senso, ne sarei fiero. D´altra parte è impossibile pretendere che i media siano privi di inesattezze e sensazionalismi; per il rigore c´è la turris austera degli studi, che vorremmo tuttavia meno tradizionalista, più tollerante, aperta al nuovo che esce dalla terra. Comunicare, narrare è importante quanto ricercare seriamente e interpretare con creatività storica; altrimenti i nostri studi moriranno (a Londra, se non erro, non si insegna più archeologia classica).

giovedì 7 febbraio 2008

MACCHE' NERONE: FURONO I CRISTIANI A BRUCIARE ROMA

La Stampa, inserto TuttoLibri, 09-07-1998, pag.6
VERRECCHIA ANACLETO
MACCHE' NERONE: FURONO I CRISTIANI A BRUCIARE ROMA
NERONE e' passato alla storia come un mostro sanguinario, anzi come il mostro per eccellenza. Ma era davvero cosi'? Molti ne dubitano e storcono il naso dinanzi alla fosca descrizione che ne fa Tacito, grandissimo come scrittore, non sempre attendibile come storico. La sua preconcetta e implacabile avversione verso tutti gli imperatori, in modo particolare quelli della Casa Giulia, lo induce a formulare giudizi atroci anche su Tiberio e Claudio, che erano invece sovrani probi e scrupolosi. Quanto a Svetonio, l'altro accusatore di Nerone, sappiamo tutti che si dilettava nel raccogliere pettegolezzi. Ma a creare la leggenda nera di Nerone furono soprattutto i cristiani. Cardano invece, in questo libro, attua un capovolgimento totale e l'imperatore romano appare quasi con l'aureola della bonta'. Senza giungere a tanto, si puo' dire questo: e' molto probabile che Nerone non fosse un angelo, ma e' altrettanto probabile che non fosse neppure quel mostro che Tacito da un lato e i cristiani dall'altro vorrebbero farci credere. E lasciamo stare i romanzi alla Quo vadis e i film che ne sono stati ricavati; paccottiglia] Siamo davvero cosi' ingenui da credere che sia stato Nerone a incendiare Roma? I cristiani e i loro simili, insomma quelli che Nietzsche chiama ciandala, erano molto piu' adatti per un tale compito. Bruciarono anche Cirene, come ricorda una lapide latina che si vede tra le rovine di quella citta'. Da vero uomo del Rinascimento, Cardano aveva una cultura enciclopedica, sia in campo scientifico che letterario. Lo si vede anche da questo libro, che trabocca di erudizione e di riferimenti storici. Il guaio e' che egli, per mettere in bella luce Nerone, dipinge in nero gli altri. A me piacciono i passionali, e Cardano lo e' in sommo grado; ma come si fa a definire Seneca "il piu' disonesto degli uomini"? Qui cadiamo nell'assurdo o nella bestemmia. Chi legge le opere di Seneca riceve un'impressione affatto diversa; e non si dimentichi che il carattere di un uomo si riflette immediatamente nei suoi scritti. Ve lo immaginate un disonesto che scriva le Lettere a Lucilio o i Dialoghi morali? Io no. Il grande GIORDANO BRUNO diceva che si conosce solo cio' che si e'. Ebbene Seneca, come ci dimostra gia' la sua morte stoica, visse cio' che pensava: la sua filosofia si rispecchia nella sua vita e viceversa. Cardano strapazza anche Tacito e Svetonio. Del primo dice che era un "individuo spinto da sfrenata ambizione e disonesta'"; del secondo, che arrivo' "a corrompere la moglie dell'imperatore di cui era segretario, cioe' Antonino: valuta il resto da questo fatto soltanto]". Ma se dovessimo condannare tutti quelli che corrompono o cercano di corrompere le mogli degli altri, chi si salverebbe? A contenerli non basterebbe neppure il deserto del Sahara. Resta l'apologia di Nerone, che non manca certo di fondamento, anche se puo' apparire eccessiva. E' un fatto che Nerone assegno' alla cultura un posto di primo piano nella vita dell'impero e che lui stesso aveva spiccate inclinazioni artistiche. E' anche un fatto che almeno nei primi anni del suo principato egli, sia pure sotto la guida di Seneca, cerco' di dare un'impronta liberale e illuminata alla monarchia imperiale. Ne' va dimenticato che durante il suo regno, come scrive Cardano, "nel pur cosi' ampio territorio dell'impero romano non si combatte' alcuna guerra, se non quella contro i Parti per l'Armenia". E i delitti, veri o presunti che fossero? Cardano risponde che se Nerone agi' duramente contro i colpevoli, "non c'e' alcun dubbio che fu mite con tutti gli innocenti e gli infelici, che fu generoso e pronto ad aiutare". Quanto poi all'accusa di aver gareggiato come auriga e di essersi esibito come citaredo, l'autore non ci vede niente di male. Semmai si tratta di comportamenti che denotano "un carattere particolarmente umano", non segni "di delinquenza o di violenza". Ha ragione: un imperatore che scriva poesie e suoni la cetra e' certo piu' intelligente e simpatico di quei capi di Stato che, affetti forse da infantilismo progressivo, corrono in capo al mondo per vedere, pensate un po', una partita di calcio. Con i cristiani Cardano e' piu' guardingo, probabilmente perche' a Bologna gli avevano fatto assaggiare il carcere dell'Inquisizione. Tuttavia scrive che "Nerone non con un editto condanno' i cristiani, ma in conseguenza dell'incendio". Poi aggiunge: "D'altra parte non ci si meravigli che i cristiani siano stati condannati come incendiari; infatti molti di loro (come riferisce Eusebio nella Storia ecclesiastica) si fecero cristiani al chiaro scopo di abbandonarsi ai peggiori delitti". E qui egli, senza volerlo, va d'accordo con Tacito, che parla dei primi cristiani come di un'accozzaglia di " scellerati". Da allora sono trascorsi duemila anni e nel frattempo i cristiani hanno smesso la loro gentile attivita' di fuochisti. E oggi hanno anche un grande merito, che va riconosciuto onestamente: sanno incassare le critiche, alle quali non sono cosi' allergici come gli altri monoteisti. In breve, sono meno fanatici. Andate per esempio a discutere con uno sciita iraniano, come ho fatto recentemente io nella bella Isfahan, e noterete la differenza. Non so se il Dio cristiano si sia addolcito o se i suoi figli siano stati rischiarati dai lumi della Grazia. Resta comunque il fatto che oggi non siamo piu' oppressi dalle brume del fanatismo religioso. Ringraziamo dunque il destino di averci fatto nascere in un'epoca in cui e' possibile dire quello che si pensa, senza correre il rischio di essere abbrustoliti su un rogo. Ancora una cosa. Anche se in certi punti puo' sembrare paradossale, il testo di Cardano e' altamente istruttivo e piacevole a leggersi. Precede una succinta e succosa introduzione di Marcello Dell'Utri, che con un occhio guarda al passato e con l'altro al presente. La traduzione dal latino, molto buona, e' di Piero Cigada.

GODERSI LA VITA NELL'ANTICA ROMA

La Stampa, Tuttolibri, 16-07-1994, pag.6
GODERSI LA VITA NELL'ANTICA ROMA
Sabatino Moscati

MA esiste' davvero, nell'antica Roma, quella "dolce vita" che abbiamo imparato a conoscere nella Roma moderna, e che a prima vista ci sembra un portato tipico del nostro tempo? Esiste', senza dubbio; e in forme assai piu' accentuate di quelle moderne, perche' non era ancora intervenuta la religione cristiana a predicare una morale diversa. Del resto, gli scrittori latini stanno li' a descriverci un edonismo che toccava spesso la dissolutezza. Ascoltiamo Seneca: " L'unica felicita' e' godersi la vita: mangiare, bere, consumare il patrimonio nei piaceri: questo e' vivere; questo significa non dimenticare che si vive una volta sola. I giorni passano veloci, la vita scorre inarrestabile: perche' esistiamo? A che serve essere saggi e temperanti finche' verra' il momento in cui non potremo piu' godere i piaceri, mentre l'eta' che abbiamo puo' goderli e li reclama? E perche' lasciarci sfuggire ora tutto cio' che la morte ci portera' via per sempre?". Seneca, si badi, condanna questa mentalita', ma intanto la descrive come prevalente, diffusa, incontrastata se non da pochi e con difficolta'. Cio' detto, pero', occorre chiedersi: la descrizione vale per ogni epoca nell'antica Roma, o solo per una parte delle sue vicende? E' merito di un acuto e vivace storico francese, Jean-Noel Robert (I piacieri a Roma) la dimostrazione che lo stato di cose fin qui descritto vale solo per una fase della storia romana antica, press'a poco tra il II secolo a. C. e il II d. C. Prima e dopo la situazione fu, per vari motivi, diversa. Prima: alle origini il romano e' un soldato e un contadino. Lavoro, frugalita', austerita' sono le sue connotazioni essenziali; e sono anche i suoi ideali, se si pensa all'esaltazione quasi emblematica di figure come Cincinnato e Catone. Questa morale, favorevole a un puritanesimo nato dalle dure condizioni della vita e del lavoro, rifiutava il lusso e la vita facile: era una morale dell'energia, dell'onesta', della virtu' contadina a cui si riportavano i primordi dell'Urbe. E senza dubbio ha ragione Sallustio, quando dice che Roma dove' la sua straordinaria espansione al rigore della sua morale. Donde, allora, la corruzione dei costumi? Ancora una volta, e' uno scrittore antico a direcelo, Plutarco: "Per la vasta estensione dell'impero e per la grande quantita' di genti ad esso sottoposte, Roma veniva per forza contaminata da molti diversi modi di vivere e da svariati esempi di costumi". Aggiungiamo: anche da diverse scuole di pensiero, che facevano grande presa. E tra esse da una in particolare, l'epicureismo, che per vero cercava solo l'eliminazione del dolore, ma che a Roma fu intesa come un'esaltazione del piacere, e addirittura della dissolutezza. In realta', l'espansione dello Stato romano creo' nelle terre conquistate occasioni continue di arrichimento, e di conseguente rilassamento dei costumi; e nella stessa capitale, i governanti cercarono di acquistarsi il favore del popolo offrendo svaghi di ogni genere, a partire da quelli spesso cruenti del circo. Scrive Sallustio: "La paura dei nemici teneva il popolo sul retto cammino. Ma quando quel terrore cadde dagli animi, prosperarono i vizi che il benessere favorisce, cioe' la sfrenatezza e l'arroganza". Ma come? Si possono evocare, secondo le testimonianze letterarie e talvolta anche quelle archeologiche, i piacieri delle feste, della tavola, della villeggiatura, dell'amore. E in tutti compaiono i tratti della sfrenatezza, a partire dalla celeberrima cena di Trimalcione per finire con la dissolutezza di Messalina, che si prostituiva incurante della dignita' imperiale. Carpe diem, "Afferra il giorno": e' la legge a cui il PAGANESIMO non opponeva il minimo freno, il minimo condizionamento. Ma dicevamo che non fini' in tal modo. Nel II secolo d.C., quando l'impero ha raggiunto il suo apice e si avvia al declino, la morale del piacere puro e semplice non basta piu'. Ed ecco diffondersi una nuova morale, quella che ribalta la visione del mondo, considera l'uomo un passeggero su questa terra, indica la vera vita nell'aldila', dove si acquisiranno gioie spirituali durature. E' la rivoluzione portata dal Cristianesimo, prima nel segreto di una predicazione contrastata, poi (con Costantino) nel riconoscimento come religione ufficiale di un impero che, agl'inizi del IV secolo della nostra era, declina ormai irreversibilmente nella sua forza terrena. Naturalmente, i costumi non potevano cambiare di punto in bianco. Quando Clemente Alessandrino ammette che i cristiani possono partecipare a banchetti, e le donne portare gioielli, siamo in quella fase di trapasso che la saggezza della Chiesa non osteggio frontalmente. Ma i vescovi non cessavano di ricordare ai fedeli che non dovevano prender parte alle cerimonie pagane e ancor meno agli spettacoli teatrali e circensi, pena l'allontanamento per sempre dall'unica prospettiva durevole e luminosa: il Regno Celeste. Il mutamento non avvenne senza sofferenza, ma avvenne. D'altronde, la crisi politica incalzava; e la fede cristiana recava in essa un conforto prezioso, un rifugio durevole. Quella moralita' che era stata appannaggio dei primi Romani tornava ad esser propria degli ultimi, in un crepuscolo che aveva ancor meno luce dell'alba.
Sabatino Moscati

mercoledì 6 febbraio 2008

Quintili, le ultime meraviglie Gli scavi portano alla luce 50 stanze, un portico e mosaici

Quintili, le ultime meraviglie Gli scavi portano alla luce 50 stanze, un portico e mosaici
CARLO ALBERTO BUCCI
SABATO, 02 FEBBRAIO 2008 la repubblica - Roma

Magnifiche rovine avvolte in prati verdi a perdita d´occhio, questa è oggi Villa dei Quintili. Ma ai tempi degli imperatori era un´altra Roma: una distesa infinita di colonne e marmi bianchi, intonaci tinti di rosso "morellone", mosaici policromi, riquadri fatti da pietre preziose e lapislazzuli color del cielo, ma anche giardini disegnati come fossero architetture tutt´intorno a quelle vere che comprendevano saloni di rappresentanza e spazi per i giochi gladiatori. E l´estensione architettonica di questo luogo degli ozi - voluto dalla famiglia dei Quintili e talmente desiderato da Commodo da indurlo a sterminare i padroni di casa pur di avere il loro paradiso affacciato sull´Appia - sta venendo chiaramente alla luce grazie alle novità degli scavi iniziati l´11 ottobre 2007.

Ma la felicità per la scoperta è guastata dalla notizia che sono finiti i 250mila euro stanziati. Così, ieri, gli operai hanno spento le ruspe e fatto le valige.


Con gli archeologi Riccardo Frontoni e Giuliana Galli - che, diretti da Rita Paris, hanno scavato per conto della Soprintendenza archeologica - in appena quattro mesi di lavoro gli uomini hanno trovato i muri e il perimetro di 52 stanze (che s´affacciano su una grande esedra del diametro di 40 metri, utilizzata probabilmente per gli allenamenti) che servivano per i massaggi degli atleti o per irrobustirli attraverso i pesi; un porticato lungo mezzo chilometro: che permetteva ai pensatori di filosofare camminando e ai podisti di allenarsi correndo; oppure, ancora, un tappeto musivo colorato da minuscoli fiori geometrici; e, all´interno di una rotonda dal raggio di 5 metri, un vecchio, arrugginito, piccolo pezzo di ferro: ma di fondamentale importanza perché appartenne a uno scultore romano. «Fuori da Pompei, è rarissimo il ritrovamento di uno scalpello. L´abbiamo rinvenuto nello strato più basso di questo ambiente circolare e appartiene probabilmente al tempo di Commodo, quando gli scalpellini smontarono i pannelli marmorei per crearne di nuovi», spiega Frontoni.
Per i giovani archeologi che da più di dieci anni lavorano alla villa costruita sull´altopiano lavico di Capo di Bove - belvedere da cui i padroni di casa potevano contemplare il paesaggio fino a Tivoli e gareggiare in bellezza con la villa di Adriano - la frustrazione di questi giorni è come quella di un cercatore d´oro che ha trovato un filone ma non può scavarlo. Del mosaico floreale che rivestiva il corridoio collegato al frigidarium, è stata portata alla luce solo la parte iniziale. I restanti 20 metri sono sotto il cumulo di terra depositata per secoli sulle vestigia sepolte. Dalla parte pulita, sono venuti fuori lo zoccolo di marmo in "greco scritto", l´intonaco rosso, molte tesserine di pasta vitrea della volta tinta d´azzurro e collassata sul pavimento. Ma, oltre a questo caleidoscopio, è comparso «anche il muro di un forno usato in epoca altomedievale per riciclare il vetro, e decine sono i frammenti di vetro antico squagliato che abbiamo trovato nella terra» spiega la Galli.
Gli archeologi avrebbero potuto limitarsi a scavare solo questo corridoio delle meraviglie. Oppure riportare alla luce esclusivamente la rotonda che, nel saggio di scavo, ha restituito decine di frammenti di marmi giunti dall´Asia e dall´Africa: fior di pesco, serpentino, rosa e giallo antico, prezioso alabastro. E avrebbero aggiunto così altre attrazioni al sito aperto al pubblico dal 2000. Ai piaceri dell´occhio, la Soprintendenza ha preferito però la sostanza delle forme. E ha riportato alla luce tutto il perimetro degli edifici scoperti dove si pensava ci fossero giardini. Per sapere se la rotonda era coperta con una volta come il Pantheon e se c´erano colonne sulla fronte dell´esedra, c´è solo da trovare altri fondi. E rimuovere quel paio di metri di terra che soffocano marmi, mosaici e storia.

martedì 5 febbraio 2008

I Barbari e la Roma classica, ecco un falso storico

l'Unità 3.2.08
I Barbari e la Roma classica, ecco un falso storico
di Renato Barilli

PALAZZO GRASSI Una mostra racconta l’incontro fra due civiltà: Visigoti e Longobardi da un parte, l’Impero dall’altro. L’insegna parla della «nascita d’un nuovo mondo». Ma i reperti ci narrano un’altra storia

Confesso di aver trovato assai allettante l’ipotesi che il veneziano Palazzo Grassi, nella nuova gestione assicuratagli dal magnate francese Pinault, non si limitasse a darci ampie abbuffate sulla più stretta attualità, come ha fatto nelle sue prime uscite, ma raccogliesse almeno in parte l’eredità dalla precedente conduzione Fiat offrendoci di tanto in tanto delle poderose retrospezioni su un passato remoto. Così è ora con Roma e i barbari (cat. Skira a cura di Jean-Jacques Aillagon). Ma il periodo preso in esame appare troppo ampio, e il pur abbondante materiale accumulato nel percorso espositivo non sembra ordinato secondo percorsi critici ben scanditi, capaci davvero di prendere per mano il visitatore. Meglio insomma che l’illustre Palazzo veneziano ritorni a ben circonstanziati scandagli sui nostri giorni.
In effetti, sotto il titolo troppo vasto si celano due mostre distinte, l’una delle quali riguarda un tema massimo, più volte affrontato, anche da me in varie occasioni su queste colonne. Si tratta del vistoso declino che le forme della classicità, del solenne mimetismo greco-romano, hanno subito man mano che ci si allontanava dall’apogeo augusteo verso i secoli della tarda romanità, con perdita delle capacità di illusionismo prospettico, di rispetto scrupoloso delle anatomie, delle individualità dei singoli personaggi. Un processo che si è esplicato in misura implacabile di secolo in secolo, a cominciare già dal II dopo Cristo, e con indici crescenti di appiattimento, di stilizzazione, di astrazione generalizzante. Ma sarebbe errato vedere in tutto ciò un qualche influsso dei barbari e delle loro invasioni, dato che queste, almeno fino al VI secolo, venivano arrestate, seppure con difficoltà crescenti. I barbari c’entrano assai poco, in questa vicenda, il fatto è che era lo stesso impero romano a «laborare de mole sua», non riusciva più a tenere in piedi un sistema ben connesso di comunicazioni viarie, da un capo all’altro del suo enorme corpaccio. È ben noto il provvedimento preso, sul finire del III, da Diocleziano, che disperando ormai di far reggere il tutto su un’unica capitale, ne stabiliva ben quattro, tentando di bloccare la crisi con il sistema tetrarchico. Ebbene, di questa vicenda sommamente istruttiva la mostra a Palazzo Grassi offre una documentazione diluita, per sommi capi, e niente affatto resa perspicua nei suoi snodi. Al pianterreno si hanno alcuni sarcofagi, il Piccolo Ludovisi, quello di Portonaccio, che attestano ancora di una fattura accurata e minuziosa dei corpi, e accanto a loro ci sono pure austere sfilate di busti di imperatori anch’essi ben modellati, mentre poi ci si precipita verso le forme già assai ridotte, quasi tracciate col compasso, di altri protagonisti vicini ai tempi di Diocleziano. Naturalmente è presente solo in foto il gruppo dei quattro Tetrarchi, che si può ammirare poco lontano, sull’esterno del Palazzo Ducale, con quelle figure simili a bambolotti scorciati nelle dimensioni, quasi clonati tra loro, a riprova che l’individualismo, il precisionismo dei vecchi tempi è ormai finito, e ci si muove a livello di mascheroni stereotipati. Non c’entra nulla anche lo sdoganamento del Cristianesimo, attuato di lì a poco da Costantino, forse proprio nel tentativo di ritrovare con esso un mastice per tenere uniti i frammenti dell’impero. È tesi spiritualista inaccettabile che sia stato l’ethos della nuova religione a sconfiggere il vecchio naturalismo pagano, accadeva semplicemente che le medesime forme ridotte e schiacciate venissero adottate anche per evocare i misteri del nuovo culto. E si sta ormai profilando la vicenda che prenderà il nome da Bisanzio, dove cessa, senza dubbio, il ruolo dell’Impero d’Occidente, ma non è che il subentrante Impero d’Oriente corrisponda a un cedimento ai barbari, anzi, è la parte della vecchia formazione statuale che ancora resiste alle invasioni dall’esterno. Uno dei pregi della mostra è di essere ricca di dittici e di altri reperti scalfiti nell’avorio, in cui figure di santi e di imperatori compaiono, nonostante il rilievo, con la medesima frontalità e ieraticità immote che i maestri musivi, nello stesso lungo periodo, conferivano ai loro elaborati parietali.
Viene poi una seconda parte della mostra, questa sì dedicata all’arrivo dei barbari, con un minuzioso censimento attento a distinguere li apporti specifici di Avari, Burgundi, Visigoti, Longobardi eccetera, ma colti in genere come erano al momento del loro sopraggiungere nelle terre d’Occidente e nelle vecchie province romane, portandosi testimonianze d’arte in genere improntate a una sorta di iconoclastia obbligata, per l’imperizia delle loro maestranze a trattare la figura umana, evocata tutt’al più in modi da dirsi davvero primitivi, un circoletto per il volto, un’asta verticale per la canna nasale, due forellini per gli occhi. Prevale il senso dell’utile, ben rare sono le immagini articolate, l’artisticità si esplica nel decorare fibbie, armille, scudi, elmi, cinturoni. Al momento, insomma, non c’è fusione, tra le due grandi componenti, e dunque, al contrario di quanto recita il sottotitolo della mostra, non c’è ancora «la nascita di un nuovo mondo».