sabato 25 agosto 2012

“Senza regole e senza fondi la nostra battaglia solitaria per difendere l’Appia Antica”

“Senza regole e senza fondi la nostra battaglia solitaria per difendere l’Appia Antica”
FRANCESCO ERBANI
VENERDÌ, 13 LUGLIO 2012 LA REPUBBLICA R2-CULTURA

Rita Paris, archeologa e soprintendente, racconta come, dal 1996 a oggi, tutelare l’area della strada romana da abusi e condoni sia un’impresa quotidiana


Da quando dirige l’ufficio della Soprintendenza che tutela l’Appia Antica, l’archeologa Rita Paris fa l’archeologa per un venti per cento del suo tempo. L’ottanta lo spende in altre incombenze. Mettere vincoli. Rigettare richieste di condoni. Studiare le carte degli avvocati pagati da chi non vuole vincoli e invoca condoni. Aggirarsi fra le norme che dovrebbero proteggere questo territorio di stupefacente bellezza, e che invece si aggrovigliano in un campionario di inefficacia. Sgranare gli occhi per scovare quali schifezze nascondono le plastichette verdi di un cantiere. Difendersi dal fuoco amico. Sollecitare i suoi superiori al ministero fino a strattonarli se si assopiscono. Tenere a bada la solitudine che, quando stringe la gola, le fa dire che tutto questo non ha senso
e, subito dopo, che se mollasse sarebbe peggio. L’Appia Antica è un’area di verde e di archeologia grande 3.800 ettari. L’antica strada romana scorre fiancheggiata di pini a ombrello in un lembo di campagna che arriva nel cuore di Roma. Rita Paris la custodisce dal 1996, quando gliel’affidò l’allora soprintendente Adriano La Regina. Dal 2004 dirige anche il Museo Nazionale Romano a Palazzo Massimo, che al pregio dei capolavori, alla qualità delle mostre, affianca un’affabilità dell’accoglienza altrove ignota. Lavora alla Soprintendenza dal 1980. Il suo quartier generale è a Villa Capo di Bove, qualche centinaio di metri dal monumento simbolo dell’Appia, la tomba di Cecilia Metella. Il vecchio proprietario, un importatore di frutta, aveva ceduto al vezzo di molti residenti sull’Appia: conficcare nella facciata ogni sorta di lapidi romane. Antonio Cederna dedicò a quest’abitudine di amare l’antico solo se fatto a pezzi esilaranti racconti. Dall’alto della villa, che ora di Cederna conserva l’archivio, si spalanca una vista su Roma che mette i brividi.
Fu lei a battersi perché Capo di Bove fosse acquisita dallo Stato.
E davanti alla villa ha scavato uno spettacolare complesso termale del II secolo.
«Era il 2002. Quell’operazione creò panico. Ho subìto interrogazioni parlamentari, qualcuno fece circolare l’accusa che La Regina e io avessimo condotto false gare d’appalto. Ma il direttore generale del ministero, Giuseppe Proietti, ci sostenne. Spendemmo 3 miliardi di lire. Ormai quella stagione si è chiusa».
Perché?
«Né la Soprintendenza né il
ministero proseguono negli acquisti. Eppure alcuni privati si sono fatti avanti per vendere reperti che sono nelle loro proprietà
».
Per esempio?
«Ci è stato offerto il Sepolcro
degli Equinozi, uno dei monumenti ipogei di maggior rilievo che conosciamo. Chiedono un milione, forse si può trattare. Ma mi hanno detto che non c’è un soldo».
Sono monumenti visitabili?
«Spesso non sono neanche visibili. Una volta per fotografare il sepolcro di sant’Urbano dovemmo salire sul cofano di una macchina, tanto alta era la recinzione issata dai proprietari. Lì intorno stiamo scavando e abbiamo rinvenuto materiale strepitoso – strade, incroci, cippi. Il sepolcro lo avrebbero venduto a un miliardo di vecchie lire. Ora, chissà, costerebbe ancora meno. Ma non c’è niente da fare. Per me è una pugnalata».
Tranne la strada, Capo di Bove e altre particelle, l’Appia è tutta privata.
«Sì, nonostante il vecchio Piano regolatore di Roma la destinasse a parco pubblico. Questa prospettiva è smarrita. Ma è smarrita ogni certezza sulla tutela di questo patrimonio. Solo lo scorso anno ho ottenuto che l’ufficio legislativo del ministero producesse una circolare in cui si stabilisce che il nostro parere è obbligatorio e vincolante su tutto ciò che si vuol fare sull’Appia».
Un piccolo passo avanti.
«È una circolare, non una legge. Pensi che appena qualche giorno fa il Demanio ci ha consegnato la via Appia dichiarandola monumento nazionale e non strada comunale come tutte le
altre».
Sbaglio o questo avviene con un po’ di ritardo?
«Non sbaglia. Ma è comunque merito degli attuali dirigenti del Demanio. Ora dovremo dettare le regole per la gestione. Metteremo dei cancelli, la strada non sarà più percorribile come una normale via di scorrimento. Ma il mio più grave cruccio resta intatto: io sono costretta a rincorrere gli altri per esercitare la tutela».
Che vuol dire?
«Se qualcuno, poniamo, vuol ampliare un capannone, fa una richiesta al Municipio. Sempre che io lo venga a sapere, prendo carta e penna, scrivo a quel qualcuno e gli dico: guardi che lei deve sottoporre anche a noi il suo progetto».
Non c’è la consapevolezza di quanto l’Appia sia un luogo speciale.
«Manca l’idea che questo sia un territorio unitario. Tutto il contesto paesaggistico è di interesse, non solo i monumenti, lo documentano secoli di indagini. Eppure quando proponiamo un vincolo, chi fa ricorso trova un giudice del Tar per il quale se non ci sono reperti e se la strada romana dista venti metri dalla proprietà, il vincolo è illegittimo. Ma sui vincoli ho incontrato resi-
stenze anche dentro il ministero ».
Quando?
«Dietro la tomba di Cecilia Metella c’è il Castrum Caetani. Lì i proprietari hanno commesso degli abusi a ridosso di una torretta medievale per i quali hanno avviato il condono. Ho chiesto almeno quattro o cinque volte agli uffici comunali di poter vedere le pratiche. Ma invano. Alcuni anni fa ho messo un vincolo. L’allora ministro Francesco Rutelli era contrario e il direttore regionale, Luciano Marchetti, firmò il decreto con riserva. La proprietà ha fatto ricorso e il giudice ci ha dato torto. Il motivo è sempre lo stesso: occorre vincolare solo il monumento. Io sono
convinta del contrario e appena possibile il vincolo lo rimetteremo ».
Quali abusi si commettono sull’Appia?
«Qualche giorno fa ci hanno
segnalato lo sbancamento di una collina di lava proprio qui, dietro Capo di Bove. Non so a cosa mirassero, forse a costruire un deposito. Noi denunciamo. Ma in tutti questi anni nessuna delle denunce ha avuto effetti. Si fanno gli abusi e non si torna indietro. Chi aveva un annesso agricolo lo ha trasformato in una villa. Poi ha costruito la piscina, chiedendo l’autorizzazione per un bacino di riserva idrica. La roba sta tutta lì: stabilimenti, concessionarie di auto, impianti sportivi, ristoranti. Persino i vivai usano il cemento».
E voi?
«Nel mio ufficio siamo tre donne a controllare questo territorio. Appena vediamo una recinzione ci mettiamo in allarme. Sulla mia scrivania giace una montagna di pratiche di condono che neanche si dovevano accettare, ma che una volta presentate bloccano la demolizione. E aggiungo che per respingere le domande tocca a me l’onere di giustificare il rilievo archeologico ».
La sua è una condizione esemplare della grave sofferenza in cui versa la tutela dei beni culturali in Italia.
«Siamo sempre meno, sempre più stanchi e le nostre fatiche sono spesso frustrate».
La sua fatica più grande?
«Far capire anche al ministero quanto è grave questa situazione. Un anno fa, all’inaugurazione di una mostra, venne il ministro Galan. Il suo consigliere Franco Miracco mi aprì le porte dell’ufficio legislativo, che ha prodotto la circolare che le dicevo. Andrea Carandini ha fatto approvare un documento sull’Appia dal Consiglio superiore dei Beni culturali. Ma poi non è successo nulla. Mi preoccupa non essere riuscita a fissare nessun punto fermo. Tutto è affidato all’impegno dei singoli. E i singoli si sentono soli».
L’attuale ministro?
«Mai visto».
Quanto guadagna?
«1.700 euro al mese, quando ci sono anche le maggiorazioni».

sabato 18 agosto 2012

Riapre la "Villa delle meraviglie" Di età tardo romana, risalente al III-IV secolo d.C., è la più imponente del Mediterraneo

Riapre la "Villa delle meraviglie" Di età tardo romana, risalente al III-IV secolo d.C., è la più imponente del Mediterraneo
SALVATORE MAROTTA
RINASCITA – 12 luglio 2012
Il giorno a lungo atteso è finalmente arrivato: il 4 luglio scorso è stata inaugurata e riaperta definitivamente al pubblico, dopo sei anni di lavori di restauro, Villa romana del Casale di Piazza Armerina, in provincia di Enna, famosa in tutto il mondo per i suoi splendidi mosaici e per essere stata inserita nel 1997 tra i siti UNESCO Patrimonio dell'Umanità. All'inaugurazione, svoltasi "in notturna" grazie al nuovo sistema d'illuminazione, hanno preso parte varie autorità guidate dal commissario Vittorio Sgarbi e dall'architetto Guido Meli, direttore del Parco archeologico ed autore del progetto di restauro, messo in opera da 50 restauratori di tutta Europa. Nessun ministro del governo Monti ha avuto la decenza di presenziare all'avvenimento, neanche il responsabile del Turismo. E non ci venga a raccontare "minchiate", signor ministro Gnudi, sul mancato invito. Per un evento di così grande rilevanza il ministro viene, punto e basta. Ma non vogliamo polemizzare più di tanto con dei "tecnici" che non capiscono la straordinaria potenzialità di questo sito, unico al mondo, in termini di ricaduta turistica, economica ed occupazionale, per e quindi per l'intera Nazione, di età tardo romana, risalente al III-IV secolo d. C., è la più imponente del Mediterraneo. I suoi "numeri" parlano chiaro: un'area di circa (ma nuovi ritrovamenti archeologici imporranno presto di riconsiderare l'intero sito), 120 milioni di tessere musive che coprono circa quadri di pavimentazione; e poi dipinti murali, sculture, fontane, colonne. Questo inestimabile patrimonio archeologico, negli ultimi decenni era fortemente compromesso da tutta una serie di fattori, per cui si rendeva necessario e urgente un intervento di recupero e conservazione dell'intera struttura. Va dato atto a Fabio Granata, all'epoca assessore regionale ai Beni culturali, di aver avviato l'iter per il restauro della Villa. Sono stati spesi 18 milioni di euro reperiti attraverso i fondi del Por Sicilia 2000/2006, ma almeno altri 5 milioni saranno necessari per recuperare al meglio le Terme, il Triclinio, il giardino antistante , ed altri servizi come l'area attrezzata di sosta e i cartelli del "percorso museografico". Rimasta sepolta per secoli, romana cominciò a rivedere la luce nell'Ottocento e in successive campagne di scavo negli anni Venti e Trenta, fino agli anni Cinquanta con l'archeologo marchigiano Gino Vinicio Gentili, che guidò la più completa operazione di rinvenimento del sito archeologico. Negli anni Sessanta i preziosi mosaici furono coperti con una struttura in ferro, plastica e vetro, ad opera dell'architetto Franco Minissi. Il nuovo progetto di recupero e conservazione ha previsto una nuova copertura in legno e rame scurito con tetto ventilato per garantire un clima ideale ed evitare il terribile "effetto serra" che tanti danni ha arrecato nel tempo ai mosaici. Sono state ridefinite le "gerarchie spaziali" della Villa recuperando l'antica volumetria in base al criterio della proporzione metrica applicata alle colonne sopravvissute. Inoltre, è stata creata una barriera contro l'umidità e le infestazioni biologiche attraverso l'isolamento dei muri esterni con un sistema drenante e traspirante. Eccezionale il lavoro di restauro conservativo effettuato sulle decorazioni pavimentali e parietali, usando le tecniche più innovative. "In un primo tempo sono stati rimossi strati di limo di decenni, muffe, alghe, batteri, funghi e sali; ripulite le tessere, danneggiate da materiali aggressivi di precedenti restauri (cere, incrostazioni, resine); distaccate piccole porzioni di mosaico per intervenire sui ferri, ormai arrugginiti, dei massetti di cemento; ripianati i "vulcanelli" e infiltrati nel terreno prodotti risananti; l'idrossido di bario iniettato con aghi inseriti tra le tessere, attraverso centinaia di flaconi di flebo, ha permesso la bonifica da alcuni sali e, al substrato, di recuperare la propria solidità. Si è passati poi al restauro vero e proprio, con l'uso di tessere in malta incisa per i decori geometrici e base incolore neutra per il figurato, che ha permesso di recuperare la lettura di gran parte dei mosaici originari. Alla Villa è stata usata, per la prima volta, una preziosa tecnica ricostruttiva delle lacune, realizzata in alcune parti del figurato di piccole dimensioni, con l'uso di malta incisa a scomposizione cromatica, secondo i colori dominati dal contorno, mutuando tale tecnica dalla reintegrazione pittorica dei dipinti e degli affreschi. Il trattamento finale è previsto con ossalato di ammonio, per consolidare e proteggere le superfici, oltre che rinvigorire l'originario cromatismo delle tessere lapidee".

mercoledì 15 agosto 2012

I resti della Villa romana saranno presto fruibili

I resti della Villa romana saranno presto fruibili
La Sicilia, Venerdì 20 Luglio 2012

I resti della Villa romana saranno presto fruibili. Sarà possibile grazie a una convenzione tra il Comune e il Parco archeologico di Eloro e Villa del Tellaro. Lo rende noto l'assessore alla Cultura e turismo, Giuseppe Morale. E lo fa per rispondere «alle accuse ingiustificate» del presidente della Pro Loco Peppino Corsico. E' stato quest'ultimo ad additare le amministrazioni comunale e provinciale di non lavorare per valorizzare il territorio. Per Corsico «il Comune non dovrebbe consentire che le porte del Palmento e frantoio Midolo rimangano chiuse per carenza di personale». E che «la Provincia dovrebbe mettere a disposizione le chiavi e il personale per garantire la regolare fruizione dei resti della Villa romana». L'assessore Morale incalza, con dati alla mano. «Con delibera di Giunta municipale (la 31 del 13 luglio 2012) abbiamo approvato una convenzione con il Parco archeologico di Eloro e Villa del Tellaro e delle aree archeologiche di Noto e comuni limitrofi, per la valorizzazione, la manutenzione e la conservazione delle aree archeologiche ricadenti nel territorio di Avola, come i resti della Villa Romana, il Dolmen e le aree archeologiche di Avola Antica. Il tutto al fine di garantire anche la fruizione al pubblico di siti che appartengono al demanio archeologico regionale». Per il museo di via Villafranca precisa: «Stiamo provvedendo alla sostituzione della porta di ingresso in legno con una di vetro, per rendere i locali a norma e consentire quindi al personale di tenerlo aperto quotidianamente». Ma i primi passi avanti, per valorizzare il territorio e far tesoro dei beni architettonici di cui dispone la città sono stati già fatti, secondo Morale, con il Teatro Garibaldi. «L'Amministrazione Cannata si è subito messa al lavoro per rendere le nostre bellezze architettoniche e archeologiche a portata di turista - aggiunge -. Non a caso abbiamo garantito l'apertura del teatro dal lunedì al sabato dalle 9 alle 14 e dalle 16 alle 19. Orari che non hanno niente a che vedere con l'apertura e la chiusura degli uffici comunali». Giuseppe Morale parla anche degli obiettivi futuri. «Uno dei nostri principali scopi è quello di mettere in rete tutte le nostre risorse architettoniche, culturali e paesaggistiche. Perché il turismo è fatto anche di virtualità». Proprio per tale ragione fa un appello ben preciso. E lo rivolge alla Pro Loco. «Invitiamo Peppino Corsico di instaurare con noi un rapporto sinergico e di lavorare insieme all'amministrazione comunale per rendere questa città un luogo più attrattivo per i turisti e per noi stessi». Emanuela Tralongo 20/07/2012

Lupa Capitolina, l’ultima verità sulle origini

Lupa Capitolina, l’ultima verità sulle origini
ADRIANO LA REGINA
29 GIUGNO 2012, LA REPUBBLICA, Roma
È medievale, non etrusca: la certezza dalle analisi al carbonio. Ma c’è chi ancora dubita
ALLA Lupa, l’enigmatica statua bronzea del Campidoglio, viene alla fine riconosciuta dai Musei capitolini un’attribuzione cronologica fondata su dati scientifici e non più solamente su valutazioni di natura stilistica. Ne è stata occasione la presentazione dei risultati delle analisi svolte per cinque anni con meticolosa caparbietà da Lucio Calcagnile, professore di fisica nell’Università del Salento. L’esame con il radiocarbonio delle terre di fusione rimaste incluse all’interno della Lupa, ripetuto ben 28 volte, ha dato risultati incontrovertibili: l’oggetto è stato fuso tra gli anni 1021 e 1153, e non nel V secolo avanti Cristo come sempre sostenuto da archeologi e da studiosi d’arte antica. Il laboratorio in cui sono state effettuate le indagini, il “Centro di datazione e diagnostica” del Dipartimento di Ingegneria dell’innovazione con sede a Brindisi, è la prima struttura italiana per la ricerca e il servizio di datazione con il radiocarbonio. Questo genere di analisi ha ormai raggiunto livelli di massima affidabilità, e l’équipe di ricercatori guidata da Calcagnile gode di altissimo credito negli ambienti scientifici internazionali. Le indagini dell’Università del Salento concludono un processo di revisione della data del bronzo capitolino avviato quindici anni fa da Anna Maria Carruba, la quale respinse l’attribuzione della Lupa all’arte etrusca, o comunque all’epoca classica.
LE SUE erano considerazioni originali, riguardanti il riconoscimento della tecnica di fusione, non impiegata in antico, e di altri aspetti consueti in epoca medievale, quali la particolare rifinitura delle superfici. Pubblicate nel 2006 queste novità critiche furono insistentemente disattese e avversate dalla direzione dei Musei capitolini e, negli ambienti accademici italiani, da storici dell’arte del mondo antico e medievale. Una posizione di estrema resistenza sull’attri-buzione dei caratteri stilistici della Lupa ad epoca classica si manifesta ora con la proposta di considerarla il calco medievale di un originale etrusco. Naturalmente la chiusura della controversia sulla datazione a favore delle ricerche svolte sulla struttura materiale, e non di quelle fondate sull’esame dei caratteri stilistici, non esaurisce il processo interpretativo; lo ripropone piuttosto su nuove basi riguardanti l’arte a Roma nei secoli XI e XII. Ma non è tutto. Con la revisione della datazione di un’opera così significativa le indagini scientifiche si pongono a pieno titolo all’interno della storia dell’arte, non come «scienze sussidiarie» subalterne ed a servizio della ricerca storica, ma nella maniera più evidente come strumenti di pari rango nello svolgimento dell’attività critica. Dal punto di vista teorico questo era stato riconosciuto da molto tempo. Appartengono alla seconda metà del Novecento fondamentali indagini strutturali, come quelle svolte sui bronzi antichi dall’archeologo Dieter Heilmeyer, già direttore dei Musei di Berlino. Nel 1986 il nostro Cesare Brandi, fondatore del glorioso Istituto centrale per il restauro, affermava che l’impiego di nuove tecniche d’indagine avrebbe assunto importanza sempre maggiore anche nella storia dell’arte. La datazione con il radiocarbonio del Grifo e del Leone di Perugia tra il 1250 ed il 1270 aveva dato, infatti, definitiva sepoltura ad attribuzioni «bislacche», così le definì Brandi, dei due bronzi.
Illustri studiosi come Giacomo Caputo, soprintendente alle antichità di Firenze, e Filippo Magi, direttore dei Musei Vaticani e professore di archeologia nell’Università di Perugia, avevano sostenuto che il Grifo e il Leone erano di epoca etrusca o romana. Peccato però che, poco dopo, il ritrovamento di un documento d’archivio dimostrò che il Grifo era stato fuso nel 1274, dando così una puntuale conferma alla datazione ottenuta con il radiocarbonio. La storia degli studi relativi ai due bronzi perugini presenta impressionanti analogie con quella della Lupa, opera d’arte più celebre e per questo meno suscettibile di innovazioni interpretative.
L’ipotesi del bronzo capitolino ottenuto con il calco di un originale etrusco, dovuta ad Edilberto Formigli, non meriterebbe alcuna attenzione se non fosse stata formulata da un esperto conoscitore della metallurgia antica. Si basa su osservazioni di cui si possono dare tuttavia altre interpretazioni, come è stato già fatto in una discussione tra tecnici della materia. Per altro se fosse vero, come egli sostiene, che la Lupa reca tracce dell’impiego di calchi negativi per plasmare i riccioli del vello, questo non dimostrerebbe in alcun modo che l’originale dal quale i calchi sono stati tratti fosse etrusco e non, ad esempio, uno dei tanti leoni stilofori del XII secolo.

sabato 11 agosto 2012

I Fori studiati dalla mongolfiera, mostra svela i segreti

I Fori studiati dalla mongolfiera, mostra svela i segreti
LAURA LARCAN
LUNEDÌ, 18 GIUGNO 2012 LA REPUBBLICA PRIMA
LA STORIA dell’archeologia a Roma sta per svelare un capitolo poco noto, che fu scritto tra il 1898 e il 1911, quando il Foro romano e il Palatino divennero la culla di una sperimentazione senza precedenti in Europa. Quando, cioè, lo studio, l'indagine e la documentazione grafica degli scavi si facevano dalla cesta di un aerostato, tra i 60 e i trecento metri d’altezza. Quando nell’area centrale degli scavi debuttò la fotografia aerea archeologica. A mettere a punto questa impresa leggendaria fu Giacomo Boni. L’ARCHITETTO veneto assunse la direzione del Foro romano dal 1898 al 1925, in stretta collaborazione con la Sezione aerostatica del Genio militare e soprattutto con il capitano Maurizio Mauro Moris, in compagnia del quale Boni effettuò le prime “volate” sulla valle del Foro. A raccontarle, è una serie straordinaria di fotografie inedite nella mostra “Boni e il Genio”, organizzata dalla soprintendenza ai Beni archeologici e dall’università La Sapienza nell’ambito del Salone dell’editoria archeologica di Roma. La mostra, da domani al 21 giugno, farà una prima tappa nella sede universitaria delle ex Vetrerie Sciarpa, in via dei Volsci 122, per poi spostarsi dal 23 giugno al 7 luglio alla British School at Rome (via Gramsci 61). «Si tratta di un nucleo di fotografie aeree scattate dal pallone frenato e dal cosiddetto pallone drago, Draken-Ballon, e riemerse grazie ad un lavoro ricerca condotto tra i materiali dei nostri archivi», spiega Patrizia Fortini, archeologa della soprintendenza e curatrice della mostra, insieme a Elisa Cella e Laura Castrianni. Un’operazione epocale oggi documentata da 70 scatti unici. «Boni eseguiva vedute d’insieme, da utilizzare a supporto delle piante generali di scavo, e vedute di dettaglio per ricostruire le fasi d’indagine e individuare stratigrafie e monumenti non più esistenti o visibili», dice Elisa Cella. Tra le chicche, le prime vedute aeree del Lapis Niger, della Fonte di Giuturna, dello Stadio di Domiziano appena individuato. Spiccano anche una veduta del Foro romano invaso dall'acqua in occasione dello straripamento del Tevere a dicembre del 1900, come pure il cantiere del Vittoriano.

venerdì 10 agosto 2012

Al Novi Ark le pietre e le parole dell’antica Mutina

Al Novi Ark le pietre e le parole dell’antica Mutina
SABATO, 21 LUGLIO 2012 LA REPUBBLICA - Bologna

MODENA — Con “La strada si anima”, lo spettacolo in programma stasera alle 21.30 al Novi Sad, apre a Modena il parco archeologico Novi Ark, realizzato con i reperti provenienti dagli scavi per il parcheggio interrato Novi Park. Un angolo dell’antica Mutina tornerà a vivere attraverso i racconti ispirati dalle testimonianze scolpite sulla pietra o dai reperti di età romana recuperati al Novi Sad: gli uomini e le donne di duemila anni fa, “risvegliati” dagli scavi archeologici, si presenteranno al pubblico nella cornice scenografica del Parco Archeologico, preceduti da un’introduzione dello scrittore Valerio Massimo Manfredi sugli eventi che portarono Mutina a diventare la città romana più importante della Cisalpina. “Siamo rimasti troppo al buio” - questo il titolo della pièce teatrale curata dall’autrice Elena Bellei è un invito a guardare agli insegnamenti della storia perché, come dice uno dei personaggi in scena, “la vita è un prestito della natura; prima o poi va restituita. Fai che sia migliore e non peggiore di quando l’hai avuta”. (giulia palmas)