mercoledì 28 novembre 2007

Dalla Roma dei pastori alla patria del diritto

Dalla Roma dei pastori alla patria del diritto
di Aldo Schiavone - 28/11/2007

dal quotidiano "La Repubblica"

L’antichista Aldo Schiavone ripercorre il dibattito storiografico sulle origini di Roma e delinea la formazione di una religione fortemente ritualizzata nella Roma arcaica come base del diritto romano formalizzato nel I secolo a.C. Dopo lo scetticismo positivista di inizio ‘900 sui racconti delle origini di Roma, oggi gli storici considerano in gran parte plausibili quelle narrazioni grazie ai risultati delle ricerche archeologiche, linguistiche, religiose e giuridiche. Schiavone è dell’opinione che la religione arcaica di Roma fosse imperniata su rigidi rituali e su proibizioni che servivano a dare fiducia e sicurezza alla comunità nei confronti dei nemici esterni. Nel corso dei secoli il formalismo religioso, divenuto «disciplinamento sociale sempre più laico», sarebbe evoluto nel pensiero giuridico della prima età imperiale.

Intorno alle origini di Roma si è svolta una delle più appassionanti discussioni storiografiche dell’intera cultura moderna, in cui si sono riflesse le idee e le tendenze di intere epoche, molto al di là della sola ricerca storica. È da oltre due secoli che ci tormentiamo su quanto accadde esattamente fra decimo e settimo secolo a. C. in quella piccola zona del Lazio non lontana dal mare, individuata da una breve catena di colli sovrastanti un’ansa del Tevere, in mezzo a boschi, paludi, capanne e piccoli campi coltivati, dove la presenza di una minuscola isola rendeva il fiume più facilmente attraversabile, trasformandolo in uno snodo di incontri, di empori, di santuari.
Gli inizi di questo dibattito sono ormai lontani, ma non per questo meno importanti: già l’aspra polemica di Hegel con Niebhur, nei primi decenni dell’Ottocento, investiva in pieno l’arcaicità romana, e anticipava motivi e temi con i quali da allora in poi non abbiamo più smesso di misurarci. E sta di fatto che il Novecento, aperto nel segno di un radicale scetticismo di matrice positivista verso i racconti e le cronologie dalla tradizione antica, a cominciare da quello stesso su Romolo, giudicati come un accumulo di implausibili leggende, e che aveva giustificato una critica delle fonti - di Cicerone, di Livio, di Dionisio, di Plutarco - irrimediabilmente incredula nei confronti di qualunque immagine da loro proposta della nascita di Roma, si è concluso invece nella generale ammissione che quelle narrazioni non ci restituiscono sconclusionate messe in scena, ma sequenze di vicende e di figure da considerare con molta attenzione, se non proprio con tranquilla fiducia. Un capovolgimento che ha implicato un’autentica rivoluzione metodologica, e un cambiamento nell’idea stessa di cosi significhi scrivere storia.
Al centro di questo mutamento di paradigma è stata senza dubbio la nuova archeologia stratigrafica, e, accanto, le nuove ricerche di storia linguistica, religiosa, giuridica, audacemente sospese fra terra, parole e riti [...]. Roma è la città del Mediterraneo antico che ha conservato nell’età più matura il maggior numero di informazioni sulle proprie origini. E non a caso. Il primato imperiale si nutriva anche di una continua sollecitazione e rielaborazione della memoria; aveva bisogno di un adeguato retroterra mitico e storico per dare profondità di campo alla propria attuale grandezza.
Ma nel contesto culturale della prima Roma, nella sua archeologia mentale potremmo dire, al posto di quella imponente fantasia mitologica e cosmogonica da cui poi sarebbe nato, in Grecia e nella Ionia, il primo autentico sapere speculativo dell’Occidente, ci troviamo invece di fronte a qualcosa di assai diverso. A una trasfigurazione della realtà in cui l’invenzione teologica e l’immaginazione animistica erano totalmente dominate dall’ideazione e dalla messa in scena di una invasiva cascata di rituali, che, appena formulati, acquistavano un’oggettività alienata e irrevocabile, secondo una proiezione propria a molte culture, anche mediterranee: schiacciavano le menti stesse che li avevano elaborati. Il loro rispetto risultava però ampiamente remunerativo: era un’osservanza che dava fiducia ed equilibrio a una comunità circondata di pericoli e di nemici - Latini, Sabini, Etruschi - insieme minacciata e aperta, un crocevia precariamente multietnico, fragile e a rischio; una città nei cui abitanti si agitava un cupo fondo di terrori e di visioni notturne (ancora nelle XII Tavole le pene si inasprivano, se i crimini erano commessi di notte), alimentato non meno da ricordi di violenze, incantesimi, sangue, che da un presente obiettivamente incerto e difficile.
Questa specie di sbilanciamento ritualistico si avvicinava molto a una vera sindrome prescrittiva, del tutto assente nella Grecia arcaica. La realtà veniva sminuzzata con un’analiticità quasi febbrile [...] nel tentativo di proteggere ogni minima funzione della vita quotidiana di quei contadini quasi perennemente in armi, attraverso l’invenzione di un dio a essa preposta, e di un rituale in grado di chetarne la sempre imminente ira. Su questa base si sarebbe poi formata tutta una trama di abitudini cerimoniali, a metà strada fra il divino e l’umano, in cui consiste il primo “ius” - misterioso monosillabo, senza eguali in qualunque altra lingua antica, il cui significato più remoto non corrisponde se non per vaga e retrospettiva assimilazione a ciò che noi (e gli stessi Romani più tardi) avremmo inteso con “diritto”: la mano che prende e che dà, il bastone che afferma il potere o il passo indietro che lo cede; la parola che pronuncia il giuramento (ius iurandum, “la formula da formulare”), o crea l’obbligo verso il proprio eguale.
Sul versante della religione, questa complessa armatura formulaica, dissociata sin dall’inizio dalla percezione di qualunque interiorità, avrebbe finito ben presto con il fossilizzarsi, trasformandosi in un corpo morto e freddo, staccato da qualunque forma di sensibilità popolare. Ma la presenza della stessa impronta avrebbe avuto un esito del tutto diverso nelle vicende del ius, come del resto l’avrebbe avuta, in un diverso contesto, nella religione dell’antico Israele, dove possiamo ritrovare una sindrome prescrittiva non lontana da quella romana. In questo senso, le due vicende sono in certo modo speculari. Nel caso di Israele, la forza evolutiva si sarebbe sviluppata tutta dal lato di una religiosità attraversata dalla morale, e una cultura giuridica autonoma non sarebbe mai nata, soffocata dall’invasività della teologia monoteista [...], a Roma invece lo sviluppo si sarebbe concentrato per intero dalla parte di un disciplinamento sociale sempre più laico [...] - l’autentico logos della romanità - fino a determinare, nel primo secolo a. C., la svolta della nascita di una vera e propria scienza del diritto. Ma questa straordinaria invenzione, con tutta la potenza del suo formalismo concettuale - un carattere indelebile della nostra civiltà - porta scritto per mille segni sulla propria fronte i tratti della sua genesi più remota.

venerdì 23 novembre 2007

DalLa Roma dei pastori alla patria del diritto

Un sistema giuridico avanzatissimo che ha ispirato e fondato l´Occidente
DalLa Roma dei pastori alla patria del diritto
di Aldo Schiavone
Alle originiLa Città eterna è quella che più di tutte ha conservato il maggior numero di informazioni sulle proprie origini. Il primato imperiale si nutriva anche di una continua sollecitazione e rielaborazione della memoria
Intorno alle origini di Roma si è svolta una delle più appassionanti discussioni storiografiche dell´intera cultura moderna, in cui si sono riflesse le idee e le tendenze di intere epoche, molto al di là della sola ricerca storica. È da oltre due secoli che ci tormentiamo su quanto accadde esattamente fra decimo e settimo secolo a. C. in quella piccola zona del Lazio non lontana dal mare, individuata da una breve catena di colli sovrastanti un´ansa del Tevere, in mezzo a boschi, paludi, capanne e piccoli campi coltivati, dove la presenza di una minuscola isola rendeva il fiume più facilmente attraversabile, trasformandolo in uno snodo di incontri, di empori, di santuari.Gli inizi di questo dibattito sono ormai lontani, ma non per questo meno importanti: già l´aspra polemica di Hegel con Niebhur, nei primi decenni dell´Ottocento, investiva in pieno l´arcaicità romana, e anticipava motivi e temi con i quali da allora in poi non abbiamo più smesso di misurarci. E sta di fatto che il Novecento, aperto nel segno di un radicale scetticismo di matrice positivista verso i racconti e le cronologie dalla tradizione antica, a cominciare da quello stesso su Romolo, giudicati come un accumulo di implausibili leggende, e che aveva giustificato una critica delle fonti – di Cicerone, di Livio, di Dionisio, di Plutarco – irrimediabilmente incredula nei confronti di qualunque immagine da loro proposta della nascita di Roma, si è concluso invece nella generale ammissione che quelle narrazioni non ci restituiscono sconclusionate messe in scena, ma sequenze di vicende e di figure da considerare con molta attenzione, se non proprio con tranquilla fiducia. Un capovolgimento che ha implicato un´autentica rivoluzione metodologica, e un cambiamento nell´idea stessa di cosi significhi scrivere storia.Al centro di questo mutamento di paradigma è stata senza dubbio la nuova archeologia stratigrafica, e, accanto, le nuove ricerche di storia linguistica, religiosa, giuridica, audacemente sospese fra terra, parole e riti, che si sono sforzate di decifrare ogni più piccola traccia, ogni frammento di pietra o di lessico, in una tensione dove la tecnica di scavo e l´analisi indiziaria aspiravano a farsi, da sole, metafora completa del mestiere di storico, proiettate verso epoche sempre più remote, quasi ai confini del tempo profondo.Roma è la città del Mediterraneo antico che ha conservato nell´età più matura il maggior numero di informazioni sulle proprie origini. E non a caso. Il primato imperiale si nutriva anche di una continua sollecitazione e rielaborazione della memoria; aveva bisogno di un adeguato retroterra mitico e storico per dare profondità di campo alla propria attuale grandezza.Ma nel contesto culturale della prima Roma, nella sua archeologia mentale potremmo dire, al posto di quella imponente fantasia mitologica e cosmogonica da cui poi sarebbe nato, in Grecia e nella Ionia, il primo autentico sapere speculativo dell´Occidente, ci troviamo invece di fronte a qualcosa di assai diverso. A una trasfigurazione della realtà in cui l´invenzione teologica e l´immaginazione animistica erano totalmente dominate dall´ideazione e dalla messa in scena di una invasiva cascata di rituali, che, appena formulati, acquistavano un´oggettività alienata e irrevocabile, secondo una proiezione propria a molte culture, anche mediterranee: schiacciavano le menti stesse che li avevano elaborati. Il loro rispetto risultava però ampiamente remunerativo: era un´osservanza che dava fiducia ed equilibrio a una comunità circondata di pericoli e di nemici – Latini, Sabini, Etruschi – insieme minacciata e aperta, un crocevia precariamente multietnico, fragile e a rischio; una città nei cui abitanti si agitava un cupo fondo di terrori e di visioni notturne (ancora nelle XII Tavole le pene si inasprivano, se i crimini erano commessi di notte), alimentato non meno da ricordi di violenze, incantesimi, sangue, che da un presente obiettivamente incerto e difficile.Questa specie di sbilanciamento ritualistico si avvicinava molto a una vera sindrome prescrittiva, del tutto assente nella Grecia arcaica. La realtà veniva sminuzzata con un´analiticità quasi febbrile – secoli dopo ancora ben chiara a Varrone – nel tentativo di proteggere ogni minima funzione della vita quotidiana di quei contadini quasi perennemente in armi, attraverso l´invenzione di un dio a essa preposta, e di un rituale in grado di chetarne la sempre imminente ira. Su questa base si sarebbe poi formata tutta una trama di abitudini cerimoniali, a metà strada fra il divino e l´umano, in cui consiste il primo "ius" – misterioso monosillabo, senza eguali in qualunque altra lingua antica, il cui significato più remoto non corrisponde se non per vaga e retrospettiva assimilazione a ciò che noi (e gli stessi Romani più tardi) avremmo inteso con "diritto": la mano che prende e che dà, il bastone che afferma il potere o il passo indietro che lo cede; la parola che pronuncia il giuramento (ius iurandum, "la formula da formulare"), o crea l´obbligo verso il proprio eguale.Sul versante della religione, questa complessa armatura formulaica, dissociata sin dall´inizio dalla percezione di qualunque interiorità, avrebbe finito ben presto con il fossilizzarsi, trasformandosi in un corpo morto e freddo, staccato da qualunque forma di sensibilità popolare. Ma la presenza della stessa impronta avrebbe avuto un esito del tutto diverso nelle vicende del ius, come del resto l´avrebbe avuta, in un diverso contesto, nella religione dell´antico Israele, dove possiamo ritrovare una sindrome prescrittiva non lontana da quella romana. In questo senso, le due vicende sono in certo modo speculari. Nel caso di Israele, la forza evolutiva si sarebbe sviluppata tutta dal lato di una religiosità attraversata dalla morale, e una cultura giuridica autonoma non sarebbe mai nata, soffocata dall´invasività della teologia monoteista (il "non avrai altro Dio" di cui parla Jan Assmann), a Roma invece lo sviluppo si sarebbe concentrato per intero dalla parte di un disciplinamento sociale sempre più laico (e che ora possiamo definire propriamente "giuridico") – l´autentico logos della romanità – fino a determinare, nel primo secolo a. C., la svolta della nascita di una vera e propria scienza del diritto. Ma questa straordinaria invenzione, con tutta la potenza del suo formalismo concettuale – un carattere indelebile della nostra civiltà – porta scritto per mille segni sulla propria fronte i tratti della sua genesi più remota.

Romolo e Remo. Perché una civiltà si fonda sul mito

Romolo e Remo. Perché una civiltà si fonda sul mito
Dopo il ritrovamento del lupercale
di Andrea Carandini
Spesso si ricorre alla leggenda per conservare nella memoria qualcosa di grande
Il repertorio delle nascite miracolose e dei gesti eroici si ritrovano in molte epoche
Quando penso a miti come quello di Roma riconosco l´infinita potenza della finzione creduta vera e della verità riplasmata, che nulla hanno che fare con la contraffazione, trattandosi di manipolazioni che partono da una realtà per conferirle stabilità, assolutezza e capacità di coinvolgimento.
Non è immaginabile il Cristianesimo fuori dalla credenza in un uomo anche dio, figlio di un padre divino e di una vergine. Per l´uomo secolarizzato e lo storico non è tanto importante che un seme sia stato trasferito, tramite uno spirito, dalla divinità nel seno di Maria, quanto che quella novella abbia trasformato una parte decisiva del mondo rifondandone i valori. Così anche Roma, una città-stato divenuta un impero, non è pensabile senza Romolo, semidivino e divinizzato in Quirino, figlio di Marte e della vergine Rea Silvia – principessa di Alba Longa – tanto che nel passaggio all´impero Augusto ha voluto assimilarsi al fondatore. Infatti "augusto" significa l´inaugurato, il benedetto da Giove, come lo era stato il primo re della città. E come Romolo è figlio di Marte, così Augusto si fa passare per figlio di Apollo. E Augusto costruisce il suo palazzo davanti alla capanna di Romolo e probabilmente sopra al Lupercale, dove il fondatore era stato salvato dall´esposizione, nutrito da antenati in forma di animali - il picchio e la lupa - perché potesse fondare Roma.È come se per creare qualcosa di grande, duraturo e caro agli dei servisse un essere più che umano, un eroe. Un eroe è definito da una vita composta a patchwork di motivi mitici, come quelle di Teseo, pensando ad Atene, e di Romolo, pensando a Roma. I temi del repertorio eroico sono pochi ma conoscono infinite varianti, come gli schemi delle favole studiati da Propp. Ma il Propp dei miti classici deve ancora venire, anche se ha avuto un precursore in Angelo Brelich, uno dei nostri giganti dimenticati, perché accusato a suo tempo - un tempo stupido - di "irrazionalismo".La leggenda di Remo e Romolo, che stiamo pubblicando e analizzando (Fondazione Valla, Mondadori 2006 e seguenti) è una stratigrafia plurisecolare, il cui livello più antico risale probabilmente alla seconda metà dell´VIII secolo a. C. o poco dopo. Si tratta di un insieme di motivi mitici e di imprese autentici, confermati da elementi esterni alla tradizione quali la storia delle religioni, la linguistica e l´archeologia. Gli annalisti, antiquari e poeti che hanno tramandato la leggenda sono vissuti tra il II secolo a. C. e Augusto, tardi rispetto alle origini che raccontano, ma i materiali di cui si avvalgono fanno parte della memoria culturale dei Romani, patrimonio di una aristocrazia che sprofonda nel tempo, che sovente non ha molto a che fare con l´epoca in cui quei letterati sono vissuti: più che creatori originali sono stati trasbordatori di ricordi codificati, salvo gli apporti tardi riconoscibili. Del nucleo autentico della leggenda fanno parte alcuni temi mitici - come la nascita e l´allattamento miracolosi, la fondazione della città dal nulla - che sono strutture mentali messe in opera da principio e che non hanno più smesso di operare, ma che non hanno riscontro nella realtà effettuale. Infatti aveva preceduto Roma il Septimontium (secondo gli antiquari) o il "centro proto-urbano" (secondo gli archeologi) e il primo re della città non era stato allattato da una lupa, ma gli era riuscito di farlo credere, che è quanto importa. Al contrario il ruolo di Alba Longa nella leggenda è reale e deve precedere il cuore del VII secolo a. C., quando quella metropoli annalisticamente e archeologicamente scompare e ha inizio la fortuna di Lavinio. Anche le imprese di Romolo sono terrene, realistiche e trovano riscontro nei monumenti. Ad esempio, dal 775-750 a. C. il Palatino - narrato come benedetto e protetto da un murus - appare circondato da mura, le cui porte sono state riproposte fino all´età di Nerone. Analogamente il Santuario principale del Foro, quello di Vesta - ospitante i culti regi e la dimora dei primi re - restituisce dal 750 a. C. circa attestazioni archeologiche clamorose (si veda il mio Roma. Il primo giorno, Laterza, 2007). Quindi è storicamente esistita una cittadella regia sul Palatino e un centro religioso e politico della città tra Foro e Campidoglio, che presuppongono un´autorità centrale potente: quella del rex-augur che nel corso di una vita ha creato la città, per cui si tratta della "fondazione" di uno stato e non di una lenta "formazione".Per capire le origini delle civiltà bisogna conoscere i miti del giorno d´oggi - come quello dell´eternità della civiltà borghese, descritto da Barthes - e liberarsi dall´assolutismo razionalistico. È questione di entrare nella selva del vero, del finto e del falso, ricordandoci che prima viene il vero e il finto mentre il falso si aggiunge dopo, quando la coscienza mitica collettiva si affievolisce e prevalgono le contraffazioni di gruppo. Pochi sono gli storici che hanno fatto una tale esperienza. Ho voluto invece sottopormi all´iniziazione di una comunità che vive ancora nell´oceano dei miti, quella di Kitawa in Melanesia, studiata da Giancarlo Scoditti (Bollati Boringhieri, 2003).Studiare Buddha - altra nascita miracolosa - e Romolo - anche lui riformatore di un politeismo più antico - serve a capire che nulla di duraturo e legante si può fondare se non interviene una logica altra rispetto a quella aristotelica, capace di piantare nella coscienza punti fermi in grado di eternizzare eventi fondamentali. Un unico mito divino i primi Romani non hanno potuto cancellare - la riforma romulea è consistita appunto nella "demitizzazione" -, quello di Marte fecondatore di Rea Silvia, perché se Romolo non fosse stato figlio di un dio non avrebbe potuto istituire la città-stato e il suo ordinamento. La Rivoluzione francese è il nostro mito fondatore: Luigi XVI doveva morire per arrivare a una monarchia costituzionale; come Remo è morto per la stessa ragione. E anche i valori della rivoluzione sono stati eternizzati, e infatti perdurano oltre la classe sociale che li ha voluti.Roma è il luogo dove la memoria si è più conservata - è meglio conosciuta di Atene - per cui costituisce la palestra ideale per cimentarci nell´intendere opere e azioni umane, a partire da quelle sottratte all´usura del tempo, che si radicano nell´arcaismo tramontato e in quello ancora operante in noi. E mentre sopravvivono le lamentele degli studiosi ipercritici, che ripetono che nulla si può sapere della prima Roma, il sottosuolo restituisce flutti di nuove informazioni che risalgono all´età del Bronzo. Ricomporre distinguendo e raccordando questa immensa congerie è il compito di noi archeologi. Può esserci un mestiere più affascinante? Quando stanchi e frustrati dalla vita quotidiana ci soffermiamo sulla "mitistoria", che è poi una storia integralmente intesa, è come se ci rigenerassimo, riprendendo la vita nella sua ampiezza, fatta di libertà ma anche di identità. Se i giovani accorrono all´Auditorium o al Colosseo per ascoltare ricerche storiche in diretta non è forse per arricchire vite banali che vorrebbero la grandezza?

martedì 20 novembre 2007

La scoperta del “Lupercale”

La scoperta del “Lupercale” è veramente un fatto importante. Questo ritrovamento archeologico dimostra la storicità del racconto mitico. Per chi come noi conosce “la verità del mito” il ritrovamento di questo sacro luogo rappresenta un momento di gioia. Il riemerge di un luogo di culto così importante ci fornisce nuovi motivi per lottare affinchè questi luoghi possano riportare all'originario culto.
Francesco Scanagatta
alcune informazione giornalistiche su questa scoperta archeologica:
SCOPERTO IL 'LUPERCALE', IL LUOGO PIU' CELEBRE DEL MITO DI ROMA
L'ECCEZIONALE RITROVAMENTO AVVENUTO NEL CORSO DEI LAVORI AL PALATINO
Roma, 20 nov. (Adnkronos/Adnkronos Cultura) - "Nel corso dell'esplorazione di questi giorni del Palatino, nella parte che da' verso il Circo Massimo, una sonda a 16 metri di profondita' ha trovato qualcosa di veramente strabiliante. Le immagini riportate da questa sonda potrebbero ragionevolmente testimoniare il luogo piu' celebre del mito della storia di Roma: il 'lupercale', ovvero il luogo dove la lupa ha allattato i gemelli Romolo e Remo". A dare oggi l'annuncio dell'incredibile scoperta, il ministro per i Beni e le Attivita' Culturali Francesco Rutelli, nel corso della conferenza stampa in cui sta facendo il punto dei lavori sul colle Palatino.
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segnalo il reportage del "La Repubblica" con foto
e da un video

Individuato il Lupercale, dove nel mito che la lupa ha allattato i gemelli
E' vicino alla casa di Augusto sotto le pendici del Palatino
Roma, la leggenda diventa realtà
trovata la grotta di Romolo e Remo
Le prime immagini mostrano una volta con marmi colorati e una grande aquila bianca
Rutelli: "Strabiliante. Per secoli era stato cercato ed ora finalmente è sotto gli occhi di tutti"

ROMA - La leggenda si fa storia. Il luogo più celebre
del mito della storia di Roma, cercato per secoli, è apparso. Il Lupercale, ovvero il luogo dove la lupa avrebbe allattato i gemelli Romolo e Remo, è stato trovato: è vicino alle mura della dimora di Augusto, in un avvallamento sotto le pendici del Palatino e in un'area mai esplorata finora tra il Tempio di Apollo e la Chiesa di Sant'Anastasia, a 16 metri di profondità. A dare oggi l'annuncio dell'incredibile scoperta, il ministro per i Beni e le attività culturali Francesco Rutelli.
"Nel corso dell'esplorazione di questi giorni del Palatino, nella parte che dà verso il Circo Massimo, una sonda a 16 metri di profondità ha trovato qualcosa di veramente strabiliante", ha detto il ministro illustrando i dettagli della scoperta. La struttura a forma di ninfeo sembra essere una grotta in parte naturale e in parte artificiale, alta circa 9 metri e con un diametro di 7,5.
La microtelecamera della sonda ha mostrato una volta decorata a cassettoni, che riquadrano motivi geometrici non figurativi realizzati a mosaico con tessere di marmo policromo, ed è impreziosita ulteriormente da filari di conchiglie bianche e dall'aquila bianca di Augusto al centro della volta stessa. A quanto pare, edificando la sua dimora proprio in quel luogo, l'imperatore volle annettere alle sua villa quel luogo altamente simbolico della storia di Roma.
Una visione mozzafiato che è stata ottenuta dalla soprintendenza, che ancora non ha messo piede nella grotta, solo alla fine di luglio scorso. "Una vivacità policroma impressionante che sembra a prima vista un unicum nel complesso della Casa di Augusto", commenta l'archeologa Irene Iacopi che ha diretto lo scavo. Con lei, il soprintendente archeologico Angelo Bottini, il professor Giorgio Croci curatore del supporto scientifico ai lavori di scavo sul Palatino e il noto archeologo Andrea Carandini.
"La grotta è ancora quasi interamente riempita di terra di riporto - dice Bottini - ma con la sonda siamo arrivati fino al pavimento che è di cocciopesto per approssimare le dimensioni di 7,5 metri d'altezza e 6 di diametro. La struttura ipogea, che ha le sembianze di un ninfeo, dove alle pareti abbiamo riconosciuto una nicchia, è alla base della collina, allo stesso livello del Circo Massimo, ed è stata inglobata in un complesso di strutture che l'hanno rispettata e decorata secondo la moda del tempo. Lo scavo sarà, quindi, complesso. Partiremo dall'alto per scendere verso il basso". "Dallo scavo, che coinvolgerà una struttura iniziale di circa 700 metri quadrati, ci aspettiamo di conoscere le connessioni tra il Lupercale e il Tempio della Casa di Augusto che aveva l'ingresso monumentale su questo versante del colle".
Il culto del Lupercale, ha spiegato Andrea Carandini, era ancora vivo nel quinto secolo dopo Cristo. Cosa che suscitò le ire del papa Gelasio I: il Pontefice proibì ai romani di praticare il rituale legato alla grotta, ovvero correre intorno al Palatino, il sacro colle, appunto, frustando le donne per renderle fertili.
Ora si dovrà cercare un varco per entrare nella grotta, costruire un cantiere in sicurezza, e svuotare del terriccio. "Gli studiosi - ha spiegato Rutelli - lavoreranno per anni sui dettagli di questa struttura. Si tratta di un luogo di culto, un santuario che Augusto trasformò in uno dei punti centrali della sua casa. Per secoli era stato cercato ed ora finalmente è sotto gli occhi di tutti".
(20 novembre 2007)

venerdì 9 novembre 2007

La Tomba dell'Orco, da A. Stenico, La pittura etrusca e romana, Mondadori

Prima tomba dell'Orco (fine del IV sec. a.C. ): la fanciulla è Velia, sposa di Arnth Velcha... volto nobile e nitido preso di profilo, capelli liberi davanti e decorato da riccioli ai lati, fermati da una corona di verdi foglie e da un nastro sopra la nuca... porta i suoi gioielli (due collane e orecchini pendenti), sguardo di assorta malinconia, accentuata dalla bocca semichiusa... si staglia sulla caligine dell'oltretomba del fondo, rischiarata a bordo del volto... sulla parete di fronte una mostruosa figura, Charu (che sarà poi il caronte dantesco! ) livido di carnagione, dal naso a becco, anguicrinito, con grandi ali e munito di martello. Un serpente crestato si snoda davanti al livido volto. E' la prima volta che nella pittura etrusca incontriamo uno di quei mostri cho poi ebbero larga diffusione, con accentuazione di quei caratteri spaventosi che i Greci certo non amarono veder figurati neppure per ragioni religiose...
Seconda tomba dell'Orco (fine del III sec. a.C. ): a fianco, nella tomba più recente, le pitture rappresentano l'oltretomba ellenico, nel quale è mischiata la demonologia etrusca. I due signori dell'Oltretombam Aita (Ade) e Phersipnai (Proserpina) sono rappresentati con caratteri paurosi, pelle di lupo sul capo l'uno, verdi serpentelli tra le chiome l'altra... tra eroi maestosi degli Inferi greci, vediamo un albero in cui si arrampicano le figurine scure delle anime... e spicca la figura mostruosa di Tuchulcha, assai simile al terrificante Charu della prima tomba...

martedì 6 novembre 2007

moneta-antica-2


moneta-antica-2
Inserito originariamente da scanagatta

stele


stele
Inserito originariamente da scanagatta

sacerdotessa


sacerdotessa
Inserito originariamente da scanagatta

moneta-antica-1


moneta-antica-1
Inserito originariamente da scanagatta

cippo


cippo
Inserito originariamente da scanagatta

Roma: L'Impero bilingue

Corriere della Sera 5.11.07
Un saggio di Paul Veyne sull'influenza fra i due mondi.
Il ruolo dei filosofi e quello dei politici
L'Impero bilingue
Così Roma ereditò la cultura politica della Grecia e diede vita all'originale «assolutismo repubblicano»
di Luciano Canfora
Uno straordinario frammento di papiro trovato oltre dieci anni fa a Tebtunis da uno studioso della Statale di Milano, Aristide Malnati, ma incredibilmente tuttora inedito, contiene un brano trattatistico di filosofia stoica corredato di note a margine. È con molta probabilità un esercizio scolastico, o comunque un testo destinato alla scuola. Non a caso fu trovato nell'area dell'antico ginnasio. Il testo principale parla degli elementi indifferenti (termine tipico del lessico stoico) che non hanno rilievo morale ma rilevanza pratica (ad esempio la ricchezza). Una nota marginale porta l'esempio di Socrate, il quale non avrebbe patito neanche della estrema povertà appunto perché insensibile all'alterno andamento degli «indifferenti».Documenti del genere testimoniano in modo diretto la realtà cui appartennero. In particolare questo spezzone di papiro, per quel che dice e per il luogo dove fu rinvenuto, testimonia un fatto notevole: la penetrazione addirittura nella realtà e quotidianità scolastica, dell'insegnamento degli stoici e dei loro «paradossi». Ma era così paradossale il loro pensiero? Paul Veyne, in un libro importante, diffuso in Francia (editore Seuil) al principio dell'anno passato e ora tradotto per Rizzoli (L'impero greco-romano) non solo mette al centro della forma mentis dei ceti colti del mondo greco- romano, tra Augusto e Marco Aurelio, l'insegnamento stoico, ma soprattutto restituisce allo stoicismo la sua grande forza di attrazione: in quanto pensiero rivolto anch'esso (lo si dimentica spesso) alla ricerca della «felicità». La «grande promessa» della dottrina stoica, infatti, è che l'uomo sottraendosi al predominio dei fattori «indifferenti » raggiungerà la felicità e sarà ormai inattingibile dai dolori, e dunque sarà «un dio mortale». Non sfuggirà quanto, con buona pace di Plutarco e di altri polemisti, questa impostazione sia vicina a quella epicurea, che ugualmente spingendo a non desiderare il superfluo e vagheggiando una forma di «piacere» che in realtà è «assenza di dolore» ugualmente approda a una felicità fondata sulla rinuncia al superfluo nonché alla promessa: «sarai simile a un dio».Veyne osserva — e questo potrebbe essere quasi un bilancio del suo grande affresco — che solo con la scoperta agostiniana della «volontà » in parte almeno impotente e della interiorità lacerata che è in ciascun soggetto, cominciò a declinare l'intellettualismo etico. Esso era stato caratteristico di tutte le scuole di pensiero postaristoteliche, così diffuse nel ceto dirigente dell'«impero bilingue», ma era già del socratismo che in effetti fu la remota matrice di quelle scuole.«Impero bilingue» è definizione appropriata di quella straordinaria fusione tra culture che è stato il segno dominante dell'impero romano. Un unico strato dirigente capace di padroneggiare perfettamente le due culture: «da Augusto in poi — scrisse efficacemente Wilamowitz (1921) — la letteratura mondiale è bilingue». Si esprime cioè indifferentemente nelle due lingue divenute dominanti, il greco e il latino. Ma, nel quadro di tale «condominio» la posizione dei Greci, i quali con Alessandro avevano imposto il greco in un'area vastissima, era ormai, al tempo stesso, politicamente subalterna e culturalmente egemone.I Greci — scrisse Simone Weil quando era molto giovane (1940) — erano «costretti, nella sventura, ad adulare i padroni». E Plutarco prudenzialmente suggeriva ai Greci di non dimenticare mai «gli stivali dei Romani» incombenti sulle loro spalle.Ai Romani, i Greci fornivano anche i modelli politico-costituzionali e la relativa riflessione teorica. Era un terreno ricco di contraddizioni, se solo si pensa alla compresenza — nella realtà del mondo greco ed ellenistico — del modello «repubblicano » della polis, retta da organismi di carattere collettivo anche se non necessariamente democratici, e del modello monarchico diffuso dalla Macedonia nel vasto mondo grecizzato da Alessandro. I teorici si incaricavano di distinguere tra monarca e tiranno, mentre per definire il potere di Pericle un grande storico ateniese aveva coniato la nozione di «princeps».Anche negli esordi di Roma, regnum era diventato, e tale restò stabilmente, un disvalore, anzi il disvalore assoluto. Per questo è grossolano errore, ma pervicace, considerare «monarchico» il tipo di potere che si affermò al vertice dell'impero a partire da Augusto. Da questo punto di vista, che è decisivo per capire la storia romana, il libro di Paul Veyne ha un effetto riparatore di tanti fraintendimenti storiografici a base emotiva. Il fulcro è nel capitolo iniziale «Che cos'era un imperatore romano?».«L'imperatore romano — scrive Veyne giusto in apertura — esercitava una professione ad alto rischio: il trono non gli apparteneva di diritto, ma ne era mandatario per conto della collettività, che lo aveva incaricato di guidare la repubblica (…). Tale delega da parte della comunità non era che una fictio, una ideologia, ma proprio l'esistenza di tale fictio era sufficiente ad impedire al mandatario di avere la legittimità di un re». E cita il gran libro di Béranger sull'«aspetto ideologico del principato » (1953), secondo cui l'impero si autorappresentava come «una successione di grandi patrioti che si fanno carico degli affari pubblici», personalità che hanno ereditato o anche conquistato a viva forza «il diritto di proteggere i loro concittadini e l'impero». Perciò — osserva Veyne — «durante l'impero non si smetterà mai di pronunciare la parola repubblica e non in nome di una finzione ipocrita (…). Il regime imperiale manteneva la sua facciata repubblicana in nome di un compromesso ». Un compromesso che ha in Augusto il suo geniale creatore. Certo, commenta Veyne, «un compromesso zoppo, che sarebbe stato motivo di conflitto perpetuo, perché era una contraddizione che il principe fosse, al tempo stesso, onnipotente e investito da altri del proprio potere ».Simbolo di questa straordinaria capacità romana di intrecciare sistemi e modelli ereditati dalla cultura politica greca, sono per l'appunto le Res Gestae di Augusto, il più celebre testo greco- latino (bilingue!) di tutta l'antichità, di cui John Scheid ha appena pubblicato nella Collection Budé una splendida edizione commentata. Un testo che Augusto fa leggere, post mortem, davanti al Senato, dal suo figlio adottivo ed erede designato, nel quale — al tempo stesso — minacciosamente rivendica la propria carriera eversiva e tuttavia orgogliosamente si ascrive il merito, riconosciutogli anche dagli avversari, di avere «restaurato la repubblica».
Paul Veyne, filologo e storico francese «L'impero grecoromano », Rizzoli, pp.780, euro 28
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commento:
Ormai le scoperte archeologiche ci consentono di scrivere che Roma non debba essere considerata solo come erede dell'Antica Grecia.
Roma aveva ed ha sempre avuto un suo patrimonio storico e culturale, una sua capacità di produrre cultura. La comunanza con la visione del mondo dell'antica Grecia è stata confusa come se Roma avesse ereditato molti elementi della cultura greca.
La tendenza nel vedere in una civiltà come erede di un'altra rientra in una visione "antropologica" monoteista, cioè per questa visione c'è sempre stato un solo ed unico inizio. Come politeisti sappiano che la vita, come la civiltà, ha sempre avuto un inizio policentrico.
Francesco Scanagatta