Il Celio e la devastazione delle ville patrizie
Giuseppe Biamonte
Rinascita 19/7/2011
Un'area di straordinario interesse storico. Il colle che Tacito chiamava Mons Querquetulanus per l'abbondanza di querce
L'urbanizzazione selvaggia dell'ultimo ventennio del XIX secolo fece scempio di ville e statue antiche
Del centinaio di ville urbane che, a partire dal Rinascimento, resero Roma un unicum dal punto di vista del verde, del paesaggio, della cultura e dell'arte, tutte armoniosamente integrate nel tessuto topografico-monumentale di età classica e tardo-antica, nonché irresistibile attrazione per scrittori, artisti, poeti e viaggiatori stranieri, solo una dozzina si salvò dalla cementificazione che si abbatté sulla città nel ventennio successivo alla proclamazione di Roma come capitale del nuovo Regno d'Italia. Tra le sopravvissute, Villa Celimontana ci restituisce, nel suo insieme, un'immagine sufficientemente conforme all'assetto originario del parco dopo il suo ampliamento, avvenuto nella prima metà del seicento, fino alle successive trasformazioni degli inizi dell'Ottocento. E proprio riguardo a Villa Celimontana vedremo come, a onta dei riferimenti storici, artistici, archeologici o culturali in genere che dovrebbero essere alla base della toponomastica delle aree di pubblico interesse (a maggior ragione in quelle locali ben circoscritte come la nostra), si sia mortificata la storia locale per interessi di bottega politica o, più semplicemente, per crassa e presuntuosa ignoranza. Si ricordava la fama che tali monumenti ebbero per i viaggiatori d'Oltralpe, che li considerarono una vera e propria tappa obbligata del loro Grand Tour in Italia. Tracce rilevanti le troviamo nelle opere di autori celebri, quali ad esempio Wolfgang Goethe (Italienische Reise), Stendhal (Promenades dans Rome), Frances Minto Elliot (Diary of an idle woman in Italy), Charles de Brosses (Le président de Brosses en Italie) o Henry James (Italian hours). Scrittori, divenuti veri e propri astigrafi dei luoghi da loro visitati, che ci hanno lasciato descrizioni affascinanti e indelebili dello splendore delle ville romane prima della brutale cancellazione della maggior parte di esse per far posto ai nuovi quartieri residenziali che avrebbero accolto, accanto alle lussuose dimore dei parvenu e degli speculatori finanziari, dei rappresentanti della classe politica emergente e dei boiardi del sorgente stato post unitario, anche le ciclopiche insulae riservate ai travet della nuova burocrazia ministeriale. Caso eclatante fu quello della splendida e famosa Villa Ludovisi. Il complesso seicentesco, la cui estensione venne stimata in poco meno di 250 mila m2, fu venduto dagli ultimi proprietari per permettere una gigantesca lottizzazione dalla quale sarebbe sorto il nuovo rione Ludovisi. E a conferma del famoso detto "pecunia non olet" anche la finanza vaticana, nonostante la demonizza-zione clericale del nuovo Stato unitario e la bruciante Questione Romana, entrò a piene mani nel gigantesco affare speculativo attraverso l'Unione romana e la Società Generale Immobiliare. L'epilogo fu la scomparsa definitiva di una tra le più rilevanti attestazioni artistiche e culturali dell'Urbe, già definita dai più celebri viaggiatori del tempo una delle sette meraviglie di Roma. Tornando a Villa Celimontana ne ricordiamo prima di tutto l'ubicazione in un'area di straordinario interesse storico-archeologico: il Celio. Il colle, che Tacito afferma chiamarsi in origine Mons Querquetulanus, per l'abbondanza di querce che vi crescevano, è legato alla leggenda che ne narra la conquista ad opera dell'eroe eponimo vulcente Celio Vibenna (il Caile Vipinas della saga etrusca) accorso in aiuto di Tarquinio Prisco. Fu crocevia di importanti percorsi viari e sede di complessi monumentali che dall'epoca repubblicana giungono fino al medioevo e al Rinascimento. Ancora oggi essi costituiscono una tra le mete più ricercate dal flusso turistico nella capitale e un patrimonio culturale di inestimabile valore. Nelle traversie riguardanti l'urbanizzazione selvaggia dell'ultimo ventennio del XIX secolo anche il Celio ebbe le sue distruzioni. Lungo l'asse dell'antica Via Caelemontana (attuale arteria di Via di S. Stefano Rotondo), fino al limitare dell'odierna Via di S. Giovanni in Laterano, due magnifiche ville patrizie, con ricche collezioni d'arte, furono abbattute per lasciar spazio ai nuovi insediamenti. La prima, Villa Casali, si trovava all'interno dell'area dell'Ospedale militare. Appartenuta alla facoltosa famiglia dei Casali, imparentatisi poi con i marchesi del Drago, essi erano già grandi collezionisti di opere d'arte alla metà del 500. La villa, acquistata dal Comune di Roma nel 1884, a prezzo d'esproprio, fu abbattuta qualche anno dopo per far posto al nosocomio militare. La seconda, Villa Campana, era proprietà dei marchesi Campana, il cui nome è legato alla ricca collezione di terrecotte, conosciute proprio col nome di "lastre Campana". Essa sorgeva tra Via dei SS. Quattro, l'arteria che porta il nome dell'omonimo complesso monastico che troneggia con la sua poderosa abside sulla propaggine del Caeliolus, e Via di S. Giovanni in Laterano; sul fondo del piazzale d'ingresso il marchese Giampietro Campana vi aveva allestito il Museo delle sculture. Orbene, da tale "fervore" edilizio e dal Piano Regolatore del 1883, Villa Celimontana ne restò fortunatamente fuori. E scampò miracolosamente anche alla cementificazione prevista dal Piano regolatore del 1909, secondo il quale l'area in questione avrebbe dovuto ospitare la costruzione di villini. Si trattò probabilmente di un provvidenziale ripensamento dettato dalle nuove norme sulla tutela delle antichità e belle arti emanate proprio in quell'anno. Immaginiamo che, dall'aldilà, anche il fondatore della villa cinquecentesca, Ciriaco Mattei, marchese di Rocca Sinibalda, abbia potuto tirare un sospiro di sollievo. Il nucleo originario della proprietà (denominata vigna Paluccelli o Paluzzelli e venduta a Giacomo di Pietrantonio Mattei, suocero di Ciriaco, il 28 settembre 1553) su cui sarebbe sorta la villa passò a Ciriaco Mattei come dote della moglie Claudia Mattei, figlia di Giacomo. La profonda passione e l'amore per la cultura classica che il colto Ciriaco profuse nella nuova fabbrica del Celio trasformarono questa parte sommitale del colle in un luogo di delizie aperto al pubblico di studiosi d'ogni dove; un luogo di meditazione e di riflessione, d'ammirazione e di studio delle opere d'arte inserite nelle architetture del palazzetto o casino (dal 1926 sede della Società Geografica Italiana) e della scomparsa loggia di S. Sisto, come pure nel lussureggiante viridarium, che doveva richiamare alla mente i giardini di età romana; ma anche luogo di piacevoli e dolci sensazioni suscitate dal canto degli uccelli ospitati nelle due artistiche uccelliere, oggi perdute, fatte costruire accanto al casino. Una percezione di armonia, insomma, dove l'arte, l'architettura e la natura sembravano sublimarsi in modo perfetto. Casino e loggia furono iniziati dall'architetto Giacomo Del Duca, allievo di Michelangelo, e vennero completati da Giovanni e Domenico Fontana, che furono, con ogni probabilità, anche i realizzatori del giardino celimontano per il quale provvidero al trasporto dell'obelisco capitolino ancora oggi visibile nel parco della villa (l'obelisco, dell'epoca di Ramses II, XIX dinastia 12901233 a.C., e proveniente da Heliopolis, che giaceva nei pressi della chiesa dell'Aracoeli in Campidoglio, fu donato dai Conservatori del popolo romano a Ciriaco Mattei nel 1582 e fatto erigere nel 1587 dal nobile mecenate nel parco della villa. L'iscrizione sul nuovo basamento esprimeva la gratitudine di Ciriaco alle munifiche autorità capitoline per il prezioso dono "(...) ut hortorum eius pulchritudo publico etiam ornamentum augeretur"). Noi troviamo ben esplicitato il mecenatismo matteiano e ciò che per lui rappresentò dal punto di vista ideale la villa, confessando oltremodo la propria prodigalità nelle spese per il complesso celi-montano, nelle parole che lo stesso Ciriaco dettò al notaio Ottavio Capogalli per la redazione del suo testamento, effettuato il 26 luglio 1610, quattro anni prima della sua morte: «Qual giardino per prima et da quaranta anni sonno era vigna, et io con molta spesa et sollecitudine et tempo l'ho redatto in forma di giardino con averci fatte molte et diverse statue pili tavole intarziate, Vasi, Quadri di pitture et diversi marmi, et fattovi all'anni addietro condurre l'Acqua felice et fattovi varie et diverse fontane et redduttolo in quel buon stato nel quale al presente si trova nel che dico, et confesso realmente haver speso più di sessanta mila scudi (...) qual giardino è stato anco di molta mia recreatione, et trattenimento, et di esercitio di virtuosi et di reputatione non poca della casa essendo visto, et visitandosi giornalmente non solo da personaggi et gente di Roma ma da forestieri con buona lode, et fama il che sia detto senza ostentatione et vanagloria ma solo per la verità et per essortatione delli miei posteri a conservarlo». Una ferrea volontà di conservazione, dunque, che porterà alla redazione di un dettagliato inventario dei beni della villa, su volontà testamentaria dello stesso Ciriaco, e che sarà compiuto dal di lui figlio, Giovanni Battista, alla morte del padre avvenuta il 10 ottobre 1614