mercoledì 14 maggio 2008

Il maschilismo dei romani

La Repubblica 28.6.07
Il maschilismo dei romani
di Eva Cantarella

Anticipiamo parte del contributo di Eva Cantarella sulla condizione femminile nell´antica Roma pubblicato su National Geographic in edicola da oggi

Nei lunghi secoli della storia di Roma, la condizione femminile cambiò profondamente. Nel periodo più antico della loro città, infatti, i romani riservarono alle donne un ruolo ben preciso: mogli e madri, riservate, sottomesse ai loro uomini (padre prima, marito poi), caste prima del matrimonio, rigorosamente fedeli se sposate; e soprattutto, sempre, silenziose. Come dimostra la storia di un´antica divinità dal nome molto significativo, Tacita Muta. Prima di assumere questo nome, leggiamo nei Fasti di Ovidio, Tacita era una ninfa di nome Lara (dal verbo greco laleo, parlare), che, purtroppo per lei, un giorno ebbe la pessima idea di svelare alla sorella Giuturna l´amore che Giove nutriva per lei, rendendo vani i tentativi di seduzione del dio. Per punirla, Giove le strappò la lingua, e partire da quel giorno Lara divenne Tacita, e fu onorata come dea del silenzio. Una storia dal valore pedagogico molto chiaro, quella di Lara-Tacita: se aveva fatto cattivo uso della parola non era stato per leggerezza individuale, era stato perché era una donna. Inevitabilmente, per una caratteristica e un difetto tipicamente femminili. Tacere, dunque, per evitare di parlare a sproposito, era un dovere fondamentale delle donne, al quale molti altri si affiancavano: non contrastare i desideri degli uomini, non immischiarsi nei loro affari, non mettere mai in discussione il loro comportamento, e ovviamente, lo abbiamo detto, mantenersi "pudiche", la parola che a Roma indicava le donne che rispettavano la regola della castità se nubili e della fedeltà se sposate.
Cosa accadeva alle donne che non rispettavano questi doveri? Per quanto riguardava la pudicizia delle donne sposate, la risposta viene da una legge, attribuita a Romolo, che stabilisce i poteri del "tribunale domestico". Il marito giudicava con i parenti in questi casi: se la moglie aveva commesso adulterio o se aveva bevuto vino. In ambedue i casi Romolo concesse di punirla con la morte. Non solo l´adultera poteva essere messa a morte, dunque, ma anche la donna che beveva vino. Inutile dire che i tentativi di comprendere le ragioni di quest´ultima regola sono stati molti (...). Ma la spiegazione più convincente della regola è quella che ne davano i romani stessi: bevendo, le donne potevano perdere il controllo, commettere adulterio, e più in generale comportarsi in modo disdicevole: «La donna che beve vino», scrive Valerio Massimo, «chiude le porta alla virtù, e la apre ai vizi». Comunque la si interpreti, la regola è evidente e indiscutibile espressione del desiderio di controllare la popolazione femminile, imponendo una riservatezza che, accanto alle altre virtù femminili, prevedeva anche il dovere primario del silenzio. Per i Romani, la parola era virtù e privilegio maschile.