Corriere della Sera, 09.10.2012
E Augusto inventò il principe nel nome della Repubblica. La campagna contro l'Egitto, capolavoro di propaganda
Luciano Canfora
Gaio Ottavio, poi Gaio Giulio Cesare dopo che Cesare lo adottò come figlio (44 a. C.), vulgo Ottaviano, detto così da chi voleva rimarcare le sue origini plebee, poi Augusto, poi «divo Augusto» post mortem, era nato nell'anno del consolato di Cicerone (63 a. C.) e morì nel 14 d. C., a settantasette anni, dopo essere stato ininterrottamente al potere in varie forme, dal 43 a. C. fino alla morte, per 57 anni. È difficile trovare nella storia una carriera più lunga. Era un precoce e fu, tra i reggitori dell'impero, il più longevo. Da giovanissimo, men che diciottenne, aveva preso parte all'ultima campagna cesariana della lunga guerra civile: la pericolosa campagna di Spagna contro i figli di Pompeo, che avevano sollevato la regione, facendo leva sugli antichi legami di clientela del loro padre Pompeo Magno. La carriera di Ottaviano fu segnata da quella campagna. La sua ascesa politica incominciò allora. Può essere utile ricordare che toccò proprio a lui, molti anni dopo, completare la conquista della Spagna (26 a.C.).
Ci sono grandi capi politici la cui «grandezza» risulta, nell'immagine recepita dalla tradizione e in fondo anche dalla storiografia, menomata dalla grandezza del predecessore. Ci riferiamo beninteso non già a quello che la ricerca accerta e ricolloca nella giusta dimensione attraverso un costante lavoro sui documenti, ma all'immagine consolidata: che pure ha anch'essa il suo rilievo ed è essa stessa, in certo senso, un fatto storico.Pensiamo ad Augusto alle prese con il gigantesco suo padre adottivo Giulio Cesare, pensiamo ad Adriano rispetto a Traiano(il "nuovo fondatore" dell'impero e conquistatore della Dacia, impresa pari, per durezza e durevolezza degli effetti, alla conquista cesariana della Gallia), a Costantino VII rispetto a Basilio I, a Filippo II rispetto a Carlo V, a Stalin rispetto a Lenin e così via. Lo studio della «fenomenologia del capo» meriterebbe una trattazione a parte: il «caso Augusto» è, da questo punto di vista, emblematico.
Eppure la sua carriera come capoparte spregiudicato, triumviro spietato, abile artefice di una apparente «restaurazione della Repubblica» che di fatto consisteva nella creazione di una nuova forma di potere personale definibile come principato (né monarchia né libera repubblica), non deve offuscare l'opera sua di costruzione imperiale e di consolidamento e ampliamento dell'impero sul piano diplomatico e militare.
Il perno di questo rinnovamento fu la guerra contro l'Egitto di Cleopatra (per parte sua sorretta dalle legioni e dall'esperienza militare di Antonio): la «guerra di Azio» (31 a. C.) seguita dalla «guerra di Alessandria», cioè dalla conquista, quasi senza colpo ferire, dell'Egitto nonostante il tentativo postremo di Cleopatra di sedurre anche il gelido Ottaviano. Si sorride di solito della scomposta esultanza di Orazio (Odi, I, 37) alla notizia della vittoria di Agrippa e di Ottaviano sulla flotta della regina che apprestava «dementes ruinas» a danno del Campidoglio. Si sorride del poeta servile che cerca di cancellare il ricordo della sua giovanile militanza repubblicana a Filippi (42 a. C.) ingigantendo il «pericolo egiziano» sventato dalla vittoria di Ottaviano ad Azio. Ma non vi è solo questo in quel celebre testo modellato sull'incipit di una altrettanto celebre poesia di Alceo. Vi è anche l'adozione del motivo principale della propaganda augustea secondo cui quella di Azio non fu l'ultimo atto della lunga guerra civile bensì una guerra esterna contro una ragguardevole potenza — l'Egitto (l'ultimo grande regno erede dell'impero di Alessandro Magno) — divenuta ancor più temibile a causa del tradimento di Antonio messosi contro Roma al servizio di una potenza straniera. E come in tutte le propagande, vi è anche un residuo di verità in una tale impostazione, giacché davvero una vittoria antoniana ad Azio avrebbe impresso una svolta all'impalcatura imperiale romana dalle conseguenze imprevedibili: ivi compresa l'adozione di un modello di regalità ellenistica che avrebbe trovato un terreno tutt'altro che sfavorevole anche nel centro del potere, e che Augusto esorcizzò e per un tempo lunghissimo rinviò grazie alla sua linea «occidentalistica» e restauratrice delle tradizioni romane, assecondata da zelanti «intellettuali organici» come il Virgilio dell'Eneide e l'indigesto Properzio del IV libro delle Elegie.
La conquista dell'Egitto non solo segnò la fine della lunga scia di Alessandro Magno, ma fu il perno di un riordino dell'assetto provinciale e della distribuzione territoriale delle legioni a tutto vantaggio del princeps e a detrimento della più potente casta repubblicana, pur sempre egemone sul piano sociale, quale il Senato di Roma.
Sul piano diplomatico il nuovo assetto dell'Oriente conseguente alla vittoria sull'Egitto comportava anche la determinazione di condizioni di buon vicinato col regno dei Parti. che già avevano umiliato Roma al tempo di Carre (53 a.C.) e che avevano sfondato in Siria al tempo del "protettorato" antoniano sulla pars Orientis (campagna di Ventidio: 38 a.C.). OraAugusto ottenne la simbolica restituzione delle insegne romane sottratte a Carre allo sconfitto Crasso. E la sua tela diplomatica si spinse ancora più ad oriente verso l'India. Il che giovò anche a un incremento dei commerci su quel versante (la «via della seta»).
Fu nel mondo germanico che la politica imperiale di Augusto subì una pesante battuta d'arresto, con la sconfitta catastrofica di Quintilio Varo caduto in trappola nella foresta di Teutoburgo il 9 d.C., cinque anni prima della morte del princeps. Ventimila uomini massacrati sul posto e il suicidio di Varo cancellarono definitivamente l'illusione di "romanizzare" il mondo germanico. Il confine fortificato si assestò, allora, definitivamente sul Reno.
Ottaviano, divenuto Augusto nel 27 a. C. nell'atto stesso di «restaurare la Repubblica», aveva conquistato diciannovenne con un colpo di Stato e marciando su Roma il massimo potere repubblicano (il consolato), dopo aver liquidato i consoli in carica nel corso del caotico epilogo della «guerra di Modena» (43 a. C.). E si è congedato dal potere e dalla vita (14 d. C.) minacciando — nei primi righi delle Res Gestae fatti leggere davanti al Senato all'indomani della sua morte— una riapertura delle guerre civili ove la torsione in senso dinastico nella «restaurata» Repubblica non fosse stata accettata dalla frastornata casta senatoria ormai priva di potere militare. Il fatto che il successore designato leggesse al Senato quelle pesanti parole con cui le Res Gestae incominciano («Ho salvato la Repubblica all'età di diciannove anni arruolando un esercito privato») non era solo una larvata minaccia: era il segno più chiaro che il princeps morente aveva designato il nuovo princeps, e che dunque un'altra forma di potere si era ormai consolidata.