giovedì 7 febbraio 2008

GODERSI LA VITA NELL'ANTICA ROMA

La Stampa, Tuttolibri, 16-07-1994, pag.6
GODERSI LA VITA NELL'ANTICA ROMA
Sabatino Moscati

MA esiste' davvero, nell'antica Roma, quella "dolce vita" che abbiamo imparato a conoscere nella Roma moderna, e che a prima vista ci sembra un portato tipico del nostro tempo? Esiste', senza dubbio; e in forme assai piu' accentuate di quelle moderne, perche' non era ancora intervenuta la religione cristiana a predicare una morale diversa. Del resto, gli scrittori latini stanno li' a descriverci un edonismo che toccava spesso la dissolutezza. Ascoltiamo Seneca: " L'unica felicita' e' godersi la vita: mangiare, bere, consumare il patrimonio nei piaceri: questo e' vivere; questo significa non dimenticare che si vive una volta sola. I giorni passano veloci, la vita scorre inarrestabile: perche' esistiamo? A che serve essere saggi e temperanti finche' verra' il momento in cui non potremo piu' godere i piaceri, mentre l'eta' che abbiamo puo' goderli e li reclama? E perche' lasciarci sfuggire ora tutto cio' che la morte ci portera' via per sempre?". Seneca, si badi, condanna questa mentalita', ma intanto la descrive come prevalente, diffusa, incontrastata se non da pochi e con difficolta'. Cio' detto, pero', occorre chiedersi: la descrizione vale per ogni epoca nell'antica Roma, o solo per una parte delle sue vicende? E' merito di un acuto e vivace storico francese, Jean-Noel Robert (I piacieri a Roma) la dimostrazione che lo stato di cose fin qui descritto vale solo per una fase della storia romana antica, press'a poco tra il II secolo a. C. e il II d. C. Prima e dopo la situazione fu, per vari motivi, diversa. Prima: alle origini il romano e' un soldato e un contadino. Lavoro, frugalita', austerita' sono le sue connotazioni essenziali; e sono anche i suoi ideali, se si pensa all'esaltazione quasi emblematica di figure come Cincinnato e Catone. Questa morale, favorevole a un puritanesimo nato dalle dure condizioni della vita e del lavoro, rifiutava il lusso e la vita facile: era una morale dell'energia, dell'onesta', della virtu' contadina a cui si riportavano i primordi dell'Urbe. E senza dubbio ha ragione Sallustio, quando dice che Roma dove' la sua straordinaria espansione al rigore della sua morale. Donde, allora, la corruzione dei costumi? Ancora una volta, e' uno scrittore antico a direcelo, Plutarco: "Per la vasta estensione dell'impero e per la grande quantita' di genti ad esso sottoposte, Roma veniva per forza contaminata da molti diversi modi di vivere e da svariati esempi di costumi". Aggiungiamo: anche da diverse scuole di pensiero, che facevano grande presa. E tra esse da una in particolare, l'epicureismo, che per vero cercava solo l'eliminazione del dolore, ma che a Roma fu intesa come un'esaltazione del piacere, e addirittura della dissolutezza. In realta', l'espansione dello Stato romano creo' nelle terre conquistate occasioni continue di arrichimento, e di conseguente rilassamento dei costumi; e nella stessa capitale, i governanti cercarono di acquistarsi il favore del popolo offrendo svaghi di ogni genere, a partire da quelli spesso cruenti del circo. Scrive Sallustio: "La paura dei nemici teneva il popolo sul retto cammino. Ma quando quel terrore cadde dagli animi, prosperarono i vizi che il benessere favorisce, cioe' la sfrenatezza e l'arroganza". Ma come? Si possono evocare, secondo le testimonianze letterarie e talvolta anche quelle archeologiche, i piacieri delle feste, della tavola, della villeggiatura, dell'amore. E in tutti compaiono i tratti della sfrenatezza, a partire dalla celeberrima cena di Trimalcione per finire con la dissolutezza di Messalina, che si prostituiva incurante della dignita' imperiale. Carpe diem, "Afferra il giorno": e' la legge a cui il PAGANESIMO non opponeva il minimo freno, il minimo condizionamento. Ma dicevamo che non fini' in tal modo. Nel II secolo d.C., quando l'impero ha raggiunto il suo apice e si avvia al declino, la morale del piacere puro e semplice non basta piu'. Ed ecco diffondersi una nuova morale, quella che ribalta la visione del mondo, considera l'uomo un passeggero su questa terra, indica la vera vita nell'aldila', dove si acquisiranno gioie spirituali durature. E' la rivoluzione portata dal Cristianesimo, prima nel segreto di una predicazione contrastata, poi (con Costantino) nel riconoscimento come religione ufficiale di un impero che, agl'inizi del IV secolo della nostra era, declina ormai irreversibilmente nella sua forza terrena. Naturalmente, i costumi non potevano cambiare di punto in bianco. Quando Clemente Alessandrino ammette che i cristiani possono partecipare a banchetti, e le donne portare gioielli, siamo in quella fase di trapasso che la saggezza della Chiesa non osteggio frontalmente. Ma i vescovi non cessavano di ricordare ai fedeli che non dovevano prender parte alle cerimonie pagane e ancor meno agli spettacoli teatrali e circensi, pena l'allontanamento per sempre dall'unica prospettiva durevole e luminosa: il Regno Celeste. Il mutamento non avvenne senza sofferenza, ma avvenne. D'altronde, la crisi politica incalzava; e la fede cristiana recava in essa un conforto prezioso, un rifugio durevole. Quella moralita' che era stata appannaggio dei primi Romani tornava ad esser propria degli ultimi, in un crepuscolo che aveva ancor meno luce dell'alba.
Sabatino Moscati