giovedì 3 luglio 2008

Quella Roma del ‘400 che non esiste più

ROMA - Quella Roma del ‘400 che non esiste più
EMANUELE TREVI
MERCOLEDÌ, 02 LUGLIO 2008 LA REPUBBLICA - Roma

Nei dipinti antichi pezzi di città che sono spariti

Usciti dalla mostra continua l´avventura di scoprire la Capitale com´era
Vecchie "istantanee" nei quadri dei pittori attivi all´epoca nella metropoli

C´è tempo fino a settembre per non perdersi questa eccezionale, illuminante mostra, Il ‘400 a Roma, curata da Claudio Strinati e Marco Bussagli al Museo del Corso. Che la visita sia di quelle che difficilmente si scordano, basterebbe il catalogo delle opere esposte ad assicurarlo anche ai più pigri e diffidenti. L´emozione che si prova di fronte a certi capolavori, diceva un grande critico d´arte, non è d´ordine semplicemente estetico o intellettuale, consistendo in un «aumento di vitalità» dalle conseguenze imponderabili. Provare per credere: per quanto mi riguarda, citerò solo la sublime Madonna delle cave di Mantegna, prestata dagli Uffizi, e l´altra Madonna col Bambino, coi due angeli che sembrano farle da scorta, di Piero della Francesca, che viene dal Palazzo Ducale di Urbino.
E´ come fare un regalo ai propri occhi. Bisogna osservare, inoltre, che il fatto che una mostra sia relativamente contenuta riguardo al numero delle opere esposte, lungi dal rivelarsi un limite, in qualche modo ne accresce il valore. La bellezza è un piacere e insieme un lavoro: e si fa presto a raggiungere il punto di saturazione. Quello stesso Mantegna di cui parlavo, raggiunto scarpinando tra le sale degli Uffizi, dopo aver già subìto l´urto di decine di capolavori, e preoccupati per i chilometri che restano ancora da percorrere, rischia di risultare praticamente invisibile per un normale visitatore. Insomma, una visita al Museo del Corso sarà di sicuro un´esperienza appagante di per sé.
Ma c´è un´altra possibilità, ancora più interessante: perché, una volta usciti dalla mostra l´avventura, invece che conclusa, potrebbe risultare, al contrario, appena iniziata. Già, perché la Roma del Quattrocento, a saperla individuare, è davvero uno degli strati più affascinanti e ricchi di sorprese della città. Roma è una specie di immensa cipolla, le cui bucce corrispondono alle epoche, sovrapposte l´una all´altra. A volte, un solo colpo d´occhio ci mostra i palazzoni dell´età umbertina, le ardite invenzioni degli architetti barocchi, le serene armonie del Rinascimento, le severe testimonianze del Medioevo indistricabilmente fuse, a loro volta, coi grandiosi frammenti dell´Antico…Andando a caccia del Quattrocento l´immaginazione dovrà spesso cooperare con la vista, accostando a ciò che è rimasto ciò che invece non esiste più. Ma non solo le distruzioni bisogna tenere in conto, perché anche gli spostamenti sono ugualmente significativi.
Facciamo l´esempio più celebre, quello della statua equestre di Marco Aurelio. Siamo così abituati a collegarla alla sublime scenografia del Campidoglio, che viene naturale pensare che sia sempre stata lì, dalla notte dei tempi. E invece, gli artisti, gli umanisti curiosi di antichità, i viaggiatori e i pellegrini che giungevano a Roma da ogni parte del mondo dovevano andare ad ammirarla in un luogo ben diverso, e a quei tempi molto più periferico rispetto al Campidoglio: la spianata di fronte a San Giovanni in Laterano, dove se ne stava in compagnia di altri celebri resti dell´arte romana – nientemeno che la Lupa e lo Spinario. Difficile immaginare un artista che, nel suo album di disegni, non facesse posto al Marco Aurelio, destinato a diventare per secoli il prototipo di tutti i monumenti equestri, ben oltre i confini di Roma.
Ma della vecchia sistemazione possediamo anche una preziosa, per così dire, ‘fotografia a colori´, e la dobbiamo al pennello di uno dei più grandi personalità artistiche accorse a Roma durante il secolo per lasciare tracce importanti del loro genio. Sto parlando del delicato, sensuale, elegantissimo Filippino Lippi, presente anche lui a via del Corso, e autore di uno dei vertici assoluti del Quattrocento romano, gli affreschi con le storie della Vergine e di san Tommaso nella cappella Carafa di Santa Maria sopra Minerva.
In uno dei riquadri di questo stupendo ciclo, restaurato qualche anno fa, si vede il santo, assiso su una specie di trono, che trionfa degli eretici. Ed ecco, sulla sinistra, al posto del solito paesaggio o di una fantasia architettonica, stagliarsi inconfondibile il profilo dell´imperatore a cavallo, sullo sfondo delle mura medievali (all´apparenza già malconce) della chiesa di San Giovanni. Certo, stiamo parlando di un edificio ben diverso da quello rifatto in età barocca, quando il genio del Borromini si incaricò di sistemare l´interno di San Giovanni (secondo solo a San Pietro per importanza tra le chiese di Roma) creando l´imponente prospettiva che tutti conosciamo. Il caso di San Giovanni è addirittura esemplare quando ragioniamo sulle metamorfosi di Roma, che sembrano possedere quel carattere di necessità mista a crudeltà tipico degli eventi naturali. L´idea che ogni aspetto del passato vada tutelato e conservato fino ai limiti del possibile, se ormai fa parte del senso comune, è infatti molto recente.
Ancora agli inizi nel Novecento, la dissennata sistemazione urbanistica conseguente alla costruzione del Vittoriano poteva indurre gli amministratori della città a sacrificare a cuor leggero un´intera ala di Palazzo Venezia. Ai tempi di Borromini, ovviamente, gli scrupoli erano ancora minori. Ebbene, ciò che si sacrificò a San Giovanni, per ottenere l´aspetto attuale, è uno dei cicli di affreschi più importanti dell´intero Quattrocento, non solo romano, dovuto all´opera di due artisti immensi: Gentile da Fabriano e Pisanello, intervenuto quest´ultimo, intorno al 1430, in seguito alla morte del primo. Quasi nulla si sa del ciclo, che doveva essere dedicato alle storie di entrambi i santi di nome Giovanni, il Battista e l´Evangelista. Forse, ai tempi di Borromini, l´opera doveva essere già malridotta, e le tecniche del restauro (ancora oggi soggette a tante controversie !) dovevano ancora aspettare secoli per essere sperimentate. Dai rari accenni che emergono dalle testimonianze di chi poté ancora osservare questi affreschi-fantasma, emerge solo la notizia del loro colore predominante, che doveva essere l´azzurro. Certo ne rimase affascinato uno dei grandi geni della pittura fiamminga, Roger van der Weyden, giunto a Roma dal remoto nord per il giubileo del 1450. A parziale compenso della perdita degli affreschi, ci sono rimasti, di Pisanello e dei suoi ragazzi di bottega, un buon numero di disegni, ispirati dai monumenti antichi visibili in giro per Roma, museo a cielo aperto e palestra di stile.
Oltre alle statue, erano i bassorilievi degli antichi sarcofagi a interessare questi artisti, che non si consideravano mai così grandi da disprezzare la pur minima lezione degli Antichi e armati di matita, cercavano di carpire, con sottili e pazienti tratteggi, il segreto di una grandezza inimitabile. Uno di quei sarcofagi si trovava poco distante da San Giovanni, al capo opposto dell´attuale via Merulana, di fronte a Santa Maria Maggiore. Non bisogna mai scordarsi che le opere da studiare e copiare non erano, a quei tempi, nelle sale dei musei, ripulite e pronte all´ammirazione. Tutto era semisepolto, coperto di vegetazione, mal riconoscibile. Il grande Lorenzo Ghiberti, nella sua autobiografia, racconta della miracolosa emersione di una statua di Ermafrodito trovata in una «chiavica» che veniva ripulita. E quando, proprio all´inizio del secolo, nel 1403, due giovanissimi amici di Firenze, di nome Donatello e Brunelleschi, arrivano a Roma per studiare i rilievi e le architetture classiche, la gente non capisce nemmeno cosa fanno. Sporchi ed affamati, del tutto assorbiti nella loro passione, passano i giorni a scavare, a prendere misure ed appunti, e il popolino li scambia per cercatori di tesori, lontani antenati di Indiana Jones più che dei severi archeologi moderni. Anche questo commuove nelle storie sui quei viaggi a Roma: l´idea di un´aurora intellettuale, di una riscoperta dell´antico che è anche l´invenzione di un´epoca nuova.
E riusciamo addirittura a perdonare a Filippino Lippi un gesto di esecrabile vandalismo, ahimé fin troppo imitato, quando apprendiamo che lasciò la sua firma su una parete della Domus Aurea, che a quei tempi si visitava, a proprio rischio e pericolo, calandosi come speleologi nelle viscere di Colle Oppio. E se ancora oggi, nell´epoca del tutto compreso, dei bus turistici e dei voli charter il viaggio a Roma può rappresentare una seconda nascita, a stento riusciamo a immaginare la felicità e la meraviglia di quei grandi spiriti che, nelle immense moli di terme e basiliche o nei pochi centimetri di una medaglia riemersa dalla terra, riconoscevano le linee portanti del proprio destino.