sabato 25 agosto 2012

“Senza regole e senza fondi la nostra battaglia solitaria per difendere l’Appia Antica”

“Senza regole e senza fondi la nostra battaglia solitaria per difendere l’Appia Antica”
FRANCESCO ERBANI
VENERDÌ, 13 LUGLIO 2012 LA REPUBBLICA R2-CULTURA

Rita Paris, archeologa e soprintendente, racconta come, dal 1996 a oggi, tutelare l’area della strada romana da abusi e condoni sia un’impresa quotidiana


Da quando dirige l’ufficio della Soprintendenza che tutela l’Appia Antica, l’archeologa Rita Paris fa l’archeologa per un venti per cento del suo tempo. L’ottanta lo spende in altre incombenze. Mettere vincoli. Rigettare richieste di condoni. Studiare le carte degli avvocati pagati da chi non vuole vincoli e invoca condoni. Aggirarsi fra le norme che dovrebbero proteggere questo territorio di stupefacente bellezza, e che invece si aggrovigliano in un campionario di inefficacia. Sgranare gli occhi per scovare quali schifezze nascondono le plastichette verdi di un cantiere. Difendersi dal fuoco amico. Sollecitare i suoi superiori al ministero fino a strattonarli se si assopiscono. Tenere a bada la solitudine che, quando stringe la gola, le fa dire che tutto questo non ha senso
e, subito dopo, che se mollasse sarebbe peggio. L’Appia Antica è un’area di verde e di archeologia grande 3.800 ettari. L’antica strada romana scorre fiancheggiata di pini a ombrello in un lembo di campagna che arriva nel cuore di Roma. Rita Paris la custodisce dal 1996, quando gliel’affidò l’allora soprintendente Adriano La Regina. Dal 2004 dirige anche il Museo Nazionale Romano a Palazzo Massimo, che al pregio dei capolavori, alla qualità delle mostre, affianca un’affabilità dell’accoglienza altrove ignota. Lavora alla Soprintendenza dal 1980. Il suo quartier generale è a Villa Capo di Bove, qualche centinaio di metri dal monumento simbolo dell’Appia, la tomba di Cecilia Metella. Il vecchio proprietario, un importatore di frutta, aveva ceduto al vezzo di molti residenti sull’Appia: conficcare nella facciata ogni sorta di lapidi romane. Antonio Cederna dedicò a quest’abitudine di amare l’antico solo se fatto a pezzi esilaranti racconti. Dall’alto della villa, che ora di Cederna conserva l’archivio, si spalanca una vista su Roma che mette i brividi.
Fu lei a battersi perché Capo di Bove fosse acquisita dallo Stato.
E davanti alla villa ha scavato uno spettacolare complesso termale del II secolo.
«Era il 2002. Quell’operazione creò panico. Ho subìto interrogazioni parlamentari, qualcuno fece circolare l’accusa che La Regina e io avessimo condotto false gare d’appalto. Ma il direttore generale del ministero, Giuseppe Proietti, ci sostenne. Spendemmo 3 miliardi di lire. Ormai quella stagione si è chiusa».
Perché?
«Né la Soprintendenza né il
ministero proseguono negli acquisti. Eppure alcuni privati si sono fatti avanti per vendere reperti che sono nelle loro proprietà
».
Per esempio?
«Ci è stato offerto il Sepolcro
degli Equinozi, uno dei monumenti ipogei di maggior rilievo che conosciamo. Chiedono un milione, forse si può trattare. Ma mi hanno detto che non c’è un soldo».
Sono monumenti visitabili?
«Spesso non sono neanche visibili. Una volta per fotografare il sepolcro di sant’Urbano dovemmo salire sul cofano di una macchina, tanto alta era la recinzione issata dai proprietari. Lì intorno stiamo scavando e abbiamo rinvenuto materiale strepitoso – strade, incroci, cippi. Il sepolcro lo avrebbero venduto a un miliardo di vecchie lire. Ora, chissà, costerebbe ancora meno. Ma non c’è niente da fare. Per me è una pugnalata».
Tranne la strada, Capo di Bove e altre particelle, l’Appia è tutta privata.
«Sì, nonostante il vecchio Piano regolatore di Roma la destinasse a parco pubblico. Questa prospettiva è smarrita. Ma è smarrita ogni certezza sulla tutela di questo patrimonio. Solo lo scorso anno ho ottenuto che l’ufficio legislativo del ministero producesse una circolare in cui si stabilisce che il nostro parere è obbligatorio e vincolante su tutto ciò che si vuol fare sull’Appia».
Un piccolo passo avanti.
«È una circolare, non una legge. Pensi che appena qualche giorno fa il Demanio ci ha consegnato la via Appia dichiarandola monumento nazionale e non strada comunale come tutte le
altre».
Sbaglio o questo avviene con un po’ di ritardo?
«Non sbaglia. Ma è comunque merito degli attuali dirigenti del Demanio. Ora dovremo dettare le regole per la gestione. Metteremo dei cancelli, la strada non sarà più percorribile come una normale via di scorrimento. Ma il mio più grave cruccio resta intatto: io sono costretta a rincorrere gli altri per esercitare la tutela».
Che vuol dire?
«Se qualcuno, poniamo, vuol ampliare un capannone, fa una richiesta al Municipio. Sempre che io lo venga a sapere, prendo carta e penna, scrivo a quel qualcuno e gli dico: guardi che lei deve sottoporre anche a noi il suo progetto».
Non c’è la consapevolezza di quanto l’Appia sia un luogo speciale.
«Manca l’idea che questo sia un territorio unitario. Tutto il contesto paesaggistico è di interesse, non solo i monumenti, lo documentano secoli di indagini. Eppure quando proponiamo un vincolo, chi fa ricorso trova un giudice del Tar per il quale se non ci sono reperti e se la strada romana dista venti metri dalla proprietà, il vincolo è illegittimo. Ma sui vincoli ho incontrato resi-
stenze anche dentro il ministero ».
Quando?
«Dietro la tomba di Cecilia Metella c’è il Castrum Caetani. Lì i proprietari hanno commesso degli abusi a ridosso di una torretta medievale per i quali hanno avviato il condono. Ho chiesto almeno quattro o cinque volte agli uffici comunali di poter vedere le pratiche. Ma invano. Alcuni anni fa ho messo un vincolo. L’allora ministro Francesco Rutelli era contrario e il direttore regionale, Luciano Marchetti, firmò il decreto con riserva. La proprietà ha fatto ricorso e il giudice ci ha dato torto. Il motivo è sempre lo stesso: occorre vincolare solo il monumento. Io sono
convinta del contrario e appena possibile il vincolo lo rimetteremo ».
Quali abusi si commettono sull’Appia?
«Qualche giorno fa ci hanno
segnalato lo sbancamento di una collina di lava proprio qui, dietro Capo di Bove. Non so a cosa mirassero, forse a costruire un deposito. Noi denunciamo. Ma in tutti questi anni nessuna delle denunce ha avuto effetti. Si fanno gli abusi e non si torna indietro. Chi aveva un annesso agricolo lo ha trasformato in una villa. Poi ha costruito la piscina, chiedendo l’autorizzazione per un bacino di riserva idrica. La roba sta tutta lì: stabilimenti, concessionarie di auto, impianti sportivi, ristoranti. Persino i vivai usano il cemento».
E voi?
«Nel mio ufficio siamo tre donne a controllare questo territorio. Appena vediamo una recinzione ci mettiamo in allarme. Sulla mia scrivania giace una montagna di pratiche di condono che neanche si dovevano accettare, ma che una volta presentate bloccano la demolizione. E aggiungo che per respingere le domande tocca a me l’onere di giustificare il rilievo archeologico ».
La sua è una condizione esemplare della grave sofferenza in cui versa la tutela dei beni culturali in Italia.
«Siamo sempre meno, sempre più stanchi e le nostre fatiche sono spesso frustrate».
La sua fatica più grande?
«Far capire anche al ministero quanto è grave questa situazione. Un anno fa, all’inaugurazione di una mostra, venne il ministro Galan. Il suo consigliere Franco Miracco mi aprì le porte dell’ufficio legislativo, che ha prodotto la circolare che le dicevo. Andrea Carandini ha fatto approvare un documento sull’Appia dal Consiglio superiore dei Beni culturali. Ma poi non è successo nulla. Mi preoccupa non essere riuscita a fissare nessun punto fermo. Tutto è affidato all’impegno dei singoli. E i singoli si sentono soli».
L’attuale ministro?
«Mai visto».
Quanto guadagna?
«1.700 euro al mese, quando ci sono anche le maggiorazioni».

sabato 18 agosto 2012

Riapre la "Villa delle meraviglie" Di età tardo romana, risalente al III-IV secolo d.C., è la più imponente del Mediterraneo

Riapre la "Villa delle meraviglie" Di età tardo romana, risalente al III-IV secolo d.C., è la più imponente del Mediterraneo
SALVATORE MAROTTA
RINASCITA – 12 luglio 2012
Il giorno a lungo atteso è finalmente arrivato: il 4 luglio scorso è stata inaugurata e riaperta definitivamente al pubblico, dopo sei anni di lavori di restauro, Villa romana del Casale di Piazza Armerina, in provincia di Enna, famosa in tutto il mondo per i suoi splendidi mosaici e per essere stata inserita nel 1997 tra i siti UNESCO Patrimonio dell'Umanità. All'inaugurazione, svoltasi "in notturna" grazie al nuovo sistema d'illuminazione, hanno preso parte varie autorità guidate dal commissario Vittorio Sgarbi e dall'architetto Guido Meli, direttore del Parco archeologico ed autore del progetto di restauro, messo in opera da 50 restauratori di tutta Europa. Nessun ministro del governo Monti ha avuto la decenza di presenziare all'avvenimento, neanche il responsabile del Turismo. E non ci venga a raccontare "minchiate", signor ministro Gnudi, sul mancato invito. Per un evento di così grande rilevanza il ministro viene, punto e basta. Ma non vogliamo polemizzare più di tanto con dei "tecnici" che non capiscono la straordinaria potenzialità di questo sito, unico al mondo, in termini di ricaduta turistica, economica ed occupazionale, per e quindi per l'intera Nazione, di età tardo romana, risalente al III-IV secolo d. C., è la più imponente del Mediterraneo. I suoi "numeri" parlano chiaro: un'area di circa (ma nuovi ritrovamenti archeologici imporranno presto di riconsiderare l'intero sito), 120 milioni di tessere musive che coprono circa quadri di pavimentazione; e poi dipinti murali, sculture, fontane, colonne. Questo inestimabile patrimonio archeologico, negli ultimi decenni era fortemente compromesso da tutta una serie di fattori, per cui si rendeva necessario e urgente un intervento di recupero e conservazione dell'intera struttura. Va dato atto a Fabio Granata, all'epoca assessore regionale ai Beni culturali, di aver avviato l'iter per il restauro della Villa. Sono stati spesi 18 milioni di euro reperiti attraverso i fondi del Por Sicilia 2000/2006, ma almeno altri 5 milioni saranno necessari per recuperare al meglio le Terme, il Triclinio, il giardino antistante , ed altri servizi come l'area attrezzata di sosta e i cartelli del "percorso museografico". Rimasta sepolta per secoli, romana cominciò a rivedere la luce nell'Ottocento e in successive campagne di scavo negli anni Venti e Trenta, fino agli anni Cinquanta con l'archeologo marchigiano Gino Vinicio Gentili, che guidò la più completa operazione di rinvenimento del sito archeologico. Negli anni Sessanta i preziosi mosaici furono coperti con una struttura in ferro, plastica e vetro, ad opera dell'architetto Franco Minissi. Il nuovo progetto di recupero e conservazione ha previsto una nuova copertura in legno e rame scurito con tetto ventilato per garantire un clima ideale ed evitare il terribile "effetto serra" che tanti danni ha arrecato nel tempo ai mosaici. Sono state ridefinite le "gerarchie spaziali" della Villa recuperando l'antica volumetria in base al criterio della proporzione metrica applicata alle colonne sopravvissute. Inoltre, è stata creata una barriera contro l'umidità e le infestazioni biologiche attraverso l'isolamento dei muri esterni con un sistema drenante e traspirante. Eccezionale il lavoro di restauro conservativo effettuato sulle decorazioni pavimentali e parietali, usando le tecniche più innovative. "In un primo tempo sono stati rimossi strati di limo di decenni, muffe, alghe, batteri, funghi e sali; ripulite le tessere, danneggiate da materiali aggressivi di precedenti restauri (cere, incrostazioni, resine); distaccate piccole porzioni di mosaico per intervenire sui ferri, ormai arrugginiti, dei massetti di cemento; ripianati i "vulcanelli" e infiltrati nel terreno prodotti risananti; l'idrossido di bario iniettato con aghi inseriti tra le tessere, attraverso centinaia di flaconi di flebo, ha permesso la bonifica da alcuni sali e, al substrato, di recuperare la propria solidità. Si è passati poi al restauro vero e proprio, con l'uso di tessere in malta incisa per i decori geometrici e base incolore neutra per il figurato, che ha permesso di recuperare la lettura di gran parte dei mosaici originari. Alla Villa è stata usata, per la prima volta, una preziosa tecnica ricostruttiva delle lacune, realizzata in alcune parti del figurato di piccole dimensioni, con l'uso di malta incisa a scomposizione cromatica, secondo i colori dominati dal contorno, mutuando tale tecnica dalla reintegrazione pittorica dei dipinti e degli affreschi. Il trattamento finale è previsto con ossalato di ammonio, per consolidare e proteggere le superfici, oltre che rinvigorire l'originario cromatismo delle tessere lapidee".

mercoledì 15 agosto 2012

I resti della Villa romana saranno presto fruibili

I resti della Villa romana saranno presto fruibili
La Sicilia, Venerdì 20 Luglio 2012

I resti della Villa romana saranno presto fruibili. Sarà possibile grazie a una convenzione tra il Comune e il Parco archeologico di Eloro e Villa del Tellaro. Lo rende noto l'assessore alla Cultura e turismo, Giuseppe Morale. E lo fa per rispondere «alle accuse ingiustificate» del presidente della Pro Loco Peppino Corsico. E' stato quest'ultimo ad additare le amministrazioni comunale e provinciale di non lavorare per valorizzare il territorio. Per Corsico «il Comune non dovrebbe consentire che le porte del Palmento e frantoio Midolo rimangano chiuse per carenza di personale». E che «la Provincia dovrebbe mettere a disposizione le chiavi e il personale per garantire la regolare fruizione dei resti della Villa romana». L'assessore Morale incalza, con dati alla mano. «Con delibera di Giunta municipale (la 31 del 13 luglio 2012) abbiamo approvato una convenzione con il Parco archeologico di Eloro e Villa del Tellaro e delle aree archeologiche di Noto e comuni limitrofi, per la valorizzazione, la manutenzione e la conservazione delle aree archeologiche ricadenti nel territorio di Avola, come i resti della Villa Romana, il Dolmen e le aree archeologiche di Avola Antica. Il tutto al fine di garantire anche la fruizione al pubblico di siti che appartengono al demanio archeologico regionale». Per il museo di via Villafranca precisa: «Stiamo provvedendo alla sostituzione della porta di ingresso in legno con una di vetro, per rendere i locali a norma e consentire quindi al personale di tenerlo aperto quotidianamente». Ma i primi passi avanti, per valorizzare il territorio e far tesoro dei beni architettonici di cui dispone la città sono stati già fatti, secondo Morale, con il Teatro Garibaldi. «L'Amministrazione Cannata si è subito messa al lavoro per rendere le nostre bellezze architettoniche e archeologiche a portata di turista - aggiunge -. Non a caso abbiamo garantito l'apertura del teatro dal lunedì al sabato dalle 9 alle 14 e dalle 16 alle 19. Orari che non hanno niente a che vedere con l'apertura e la chiusura degli uffici comunali». Giuseppe Morale parla anche degli obiettivi futuri. «Uno dei nostri principali scopi è quello di mettere in rete tutte le nostre risorse architettoniche, culturali e paesaggistiche. Perché il turismo è fatto anche di virtualità». Proprio per tale ragione fa un appello ben preciso. E lo rivolge alla Pro Loco. «Invitiamo Peppino Corsico di instaurare con noi un rapporto sinergico e di lavorare insieme all'amministrazione comunale per rendere questa città un luogo più attrattivo per i turisti e per noi stessi». Emanuela Tralongo 20/07/2012

Lupa Capitolina, l’ultima verità sulle origini

Lupa Capitolina, l’ultima verità sulle origini
ADRIANO LA REGINA
29 GIUGNO 2012, LA REPUBBLICA, Roma
È medievale, non etrusca: la certezza dalle analisi al carbonio. Ma c’è chi ancora dubita
ALLA Lupa, l’enigmatica statua bronzea del Campidoglio, viene alla fine riconosciuta dai Musei capitolini un’attribuzione cronologica fondata su dati scientifici e non più solamente su valutazioni di natura stilistica. Ne è stata occasione la presentazione dei risultati delle analisi svolte per cinque anni con meticolosa caparbietà da Lucio Calcagnile, professore di fisica nell’Università del Salento. L’esame con il radiocarbonio delle terre di fusione rimaste incluse all’interno della Lupa, ripetuto ben 28 volte, ha dato risultati incontrovertibili: l’oggetto è stato fuso tra gli anni 1021 e 1153, e non nel V secolo avanti Cristo come sempre sostenuto da archeologi e da studiosi d’arte antica. Il laboratorio in cui sono state effettuate le indagini, il “Centro di datazione e diagnostica” del Dipartimento di Ingegneria dell’innovazione con sede a Brindisi, è la prima struttura italiana per la ricerca e il servizio di datazione con il radiocarbonio. Questo genere di analisi ha ormai raggiunto livelli di massima affidabilità, e l’équipe di ricercatori guidata da Calcagnile gode di altissimo credito negli ambienti scientifici internazionali. Le indagini dell’Università del Salento concludono un processo di revisione della data del bronzo capitolino avviato quindici anni fa da Anna Maria Carruba, la quale respinse l’attribuzione della Lupa all’arte etrusca, o comunque all’epoca classica.
LE SUE erano considerazioni originali, riguardanti il riconoscimento della tecnica di fusione, non impiegata in antico, e di altri aspetti consueti in epoca medievale, quali la particolare rifinitura delle superfici. Pubblicate nel 2006 queste novità critiche furono insistentemente disattese e avversate dalla direzione dei Musei capitolini e, negli ambienti accademici italiani, da storici dell’arte del mondo antico e medievale. Una posizione di estrema resistenza sull’attri-buzione dei caratteri stilistici della Lupa ad epoca classica si manifesta ora con la proposta di considerarla il calco medievale di un originale etrusco. Naturalmente la chiusura della controversia sulla datazione a favore delle ricerche svolte sulla struttura materiale, e non di quelle fondate sull’esame dei caratteri stilistici, non esaurisce il processo interpretativo; lo ripropone piuttosto su nuove basi riguardanti l’arte a Roma nei secoli XI e XII. Ma non è tutto. Con la revisione della datazione di un’opera così significativa le indagini scientifiche si pongono a pieno titolo all’interno della storia dell’arte, non come «scienze sussidiarie» subalterne ed a servizio della ricerca storica, ma nella maniera più evidente come strumenti di pari rango nello svolgimento dell’attività critica. Dal punto di vista teorico questo era stato riconosciuto da molto tempo. Appartengono alla seconda metà del Novecento fondamentali indagini strutturali, come quelle svolte sui bronzi antichi dall’archeologo Dieter Heilmeyer, già direttore dei Musei di Berlino. Nel 1986 il nostro Cesare Brandi, fondatore del glorioso Istituto centrale per il restauro, affermava che l’impiego di nuove tecniche d’indagine avrebbe assunto importanza sempre maggiore anche nella storia dell’arte. La datazione con il radiocarbonio del Grifo e del Leone di Perugia tra il 1250 ed il 1270 aveva dato, infatti, definitiva sepoltura ad attribuzioni «bislacche», così le definì Brandi, dei due bronzi.
Illustri studiosi come Giacomo Caputo, soprintendente alle antichità di Firenze, e Filippo Magi, direttore dei Musei Vaticani e professore di archeologia nell’Università di Perugia, avevano sostenuto che il Grifo e il Leone erano di epoca etrusca o romana. Peccato però che, poco dopo, il ritrovamento di un documento d’archivio dimostrò che il Grifo era stato fuso nel 1274, dando così una puntuale conferma alla datazione ottenuta con il radiocarbonio. La storia degli studi relativi ai due bronzi perugini presenta impressionanti analogie con quella della Lupa, opera d’arte più celebre e per questo meno suscettibile di innovazioni interpretative.
L’ipotesi del bronzo capitolino ottenuto con il calco di un originale etrusco, dovuta ad Edilberto Formigli, non meriterebbe alcuna attenzione se non fosse stata formulata da un esperto conoscitore della metallurgia antica. Si basa su osservazioni di cui si possono dare tuttavia altre interpretazioni, come è stato già fatto in una discussione tra tecnici della materia. Per altro se fosse vero, come egli sostiene, che la Lupa reca tracce dell’impiego di calchi negativi per plasmare i riccioli del vello, questo non dimostrerebbe in alcun modo che l’originale dal quale i calchi sono stati tratti fosse etrusco e non, ad esempio, uno dei tanti leoni stilofori del XII secolo.

sabato 11 agosto 2012

I Fori studiati dalla mongolfiera, mostra svela i segreti

I Fori studiati dalla mongolfiera, mostra svela i segreti
LAURA LARCAN
LUNEDÌ, 18 GIUGNO 2012 LA REPUBBLICA PRIMA
LA STORIA dell’archeologia a Roma sta per svelare un capitolo poco noto, che fu scritto tra il 1898 e il 1911, quando il Foro romano e il Palatino divennero la culla di una sperimentazione senza precedenti in Europa. Quando, cioè, lo studio, l'indagine e la documentazione grafica degli scavi si facevano dalla cesta di un aerostato, tra i 60 e i trecento metri d’altezza. Quando nell’area centrale degli scavi debuttò la fotografia aerea archeologica. A mettere a punto questa impresa leggendaria fu Giacomo Boni. L’ARCHITETTO veneto assunse la direzione del Foro romano dal 1898 al 1925, in stretta collaborazione con la Sezione aerostatica del Genio militare e soprattutto con il capitano Maurizio Mauro Moris, in compagnia del quale Boni effettuò le prime “volate” sulla valle del Foro. A raccontarle, è una serie straordinaria di fotografie inedite nella mostra “Boni e il Genio”, organizzata dalla soprintendenza ai Beni archeologici e dall’università La Sapienza nell’ambito del Salone dell’editoria archeologica di Roma. La mostra, da domani al 21 giugno, farà una prima tappa nella sede universitaria delle ex Vetrerie Sciarpa, in via dei Volsci 122, per poi spostarsi dal 23 giugno al 7 luglio alla British School at Rome (via Gramsci 61). «Si tratta di un nucleo di fotografie aeree scattate dal pallone frenato e dal cosiddetto pallone drago, Draken-Ballon, e riemerse grazie ad un lavoro ricerca condotto tra i materiali dei nostri archivi», spiega Patrizia Fortini, archeologa della soprintendenza e curatrice della mostra, insieme a Elisa Cella e Laura Castrianni. Un’operazione epocale oggi documentata da 70 scatti unici. «Boni eseguiva vedute d’insieme, da utilizzare a supporto delle piante generali di scavo, e vedute di dettaglio per ricostruire le fasi d’indagine e individuare stratigrafie e monumenti non più esistenti o visibili», dice Elisa Cella. Tra le chicche, le prime vedute aeree del Lapis Niger, della Fonte di Giuturna, dello Stadio di Domiziano appena individuato. Spiccano anche una veduta del Foro romano invaso dall'acqua in occasione dello straripamento del Tevere a dicembre del 1900, come pure il cantiere del Vittoriano.

venerdì 10 agosto 2012

Al Novi Ark le pietre e le parole dell’antica Mutina

Al Novi Ark le pietre e le parole dell’antica Mutina
SABATO, 21 LUGLIO 2012 LA REPUBBLICA - Bologna

MODENA — Con “La strada si anima”, lo spettacolo in programma stasera alle 21.30 al Novi Sad, apre a Modena il parco archeologico Novi Ark, realizzato con i reperti provenienti dagli scavi per il parcheggio interrato Novi Park. Un angolo dell’antica Mutina tornerà a vivere attraverso i racconti ispirati dalle testimonianze scolpite sulla pietra o dai reperti di età romana recuperati al Novi Sad: gli uomini e le donne di duemila anni fa, “risvegliati” dagli scavi archeologici, si presenteranno al pubblico nella cornice scenografica del Parco Archeologico, preceduti da un’introduzione dello scrittore Valerio Massimo Manfredi sugli eventi che portarono Mutina a diventare la città romana più importante della Cisalpina. “Siamo rimasti troppo al buio” - questo il titolo della pièce teatrale curata dall’autrice Elena Bellei è un invito a guardare agli insegnamenti della storia perché, come dice uno dei personaggi in scena, “la vita è un prestito della natura; prima o poi va restituita. Fai che sia migliore e non peggiore di quando l’hai avuta”. (giulia palmas)

giovedì 9 agosto 2012

Il mare restituisce la storia. Recuperato un altro rostro di una delle navi affondate nella battaglia delle Egadi

Il mare restituisce la storia. Recuperato un altro rostro di una delle navi affondate nella battaglia delle Egadi
LA SICILIA Sabato 23 Giugno 2012
La campagna di «Archeorete» si svolge in collaborazione con la «Hercules» della Rpm Nautical Foundation
L´ottavo rostro così come è stato ritrovato la scorsa settimana ... Favignana. Il mare eguseo continua a restituire preziosissime testimonianze storiche dello scontro finale della prima guerra punica nel quale il 10 marzo del 241 avanti Cristo si affrontarono cartaginesi e romani. E' notizia di ieri, infatti, che martedì scorso, durante la nuova campagna di «Archeorete Egadi», diretta dalla Soprintendenza del Mare per la quale è coordinata dall'archeologo Stefano Zangara, è stato ritrovato il nono rostro grazie all'ausilio delle tecnologie di cui dispone la nave oceanografica «Hercules», della fondazione statunitense Rpm Nautical foundation, che consentono di esplorare profondità molto elevate. Soltanto una settimana prima, fra il 10 e l'11 giugno scorsi, il Rov, il mezzo filoguidato subacqueo di cui è dotato la nave «Hercules», aveva permesso di individuare, poggiato su un fondale sabbioso di circa ottanta metri, l'ottavo rostro in bronzo appartenuto a un'antica nave da guerra. Questo rostro è stato trovato in posizione eretta e parzialmente sepolto fino alla pinna superiore. Un rapido test effettuato dal team scientifico operante lo ha indicato come probabilmente integro. Sempre nella stessa area in quella circostanza sono stati intercettati altri importanti reperti. Si tratta di una consistente quantità di anfore di varia tipologia e quasi totalmente integre, di due elmi montefortini, di piccole suppellettili facenti parte del carico di uso di bordo e di un interessante elemento metallico. Tutti questi reperti, che dopo il loro recupero saranno sottoposti a un accurato studio, per il momento sono stati georeferenziati nel sistema Gis del progetto «Archeorete Egadi». «Il posizionamento di questi ultimi ritrovamenti - dicono dalla Soprintendenza del Mare - indicano ancora una volta che la loro dispersione è concentrata in un'area ben definita. Il confronto con la proiezione statistica redatta negli ultimi anni e relativa alla nostra zona di copertura sonar ed elaborata sin dal 2005, conduce alla conclusione che molti altri reperti sono ancora giacenti sul fondo del mare. Inoltre il dottor Murray, insigne professore statunitense anche lui a bordo della nave oceanografica "Hercules", si è dimostrato particolarmente entusiasta per queste scoperte confortando la nostra rilettura delle antiche fonti storiche. Non sappiamo se le condizioni meteo-marine ci accompagneranno anche nei prossimi giorni, aspetteremo le finestre operative confortati dai nostri eccezionali collaboratori». Anche quest'anno il progetto di «Archeorete Egadi» si inserisce nel programma delle attività d'altofondale della Sovrintendenza del Mare che ha previsto pure incontri formativi e divulgativi per scolaresche, enti di ricerca e studiosi. La Sovrintendenza del Mare e l'Rpm Nautical foundation sono tornati a operare nelle acque delle Egadi lo scorso 1 giugno per continuare la ricostruzione delle fasi conclusive dello scontro della prima guerra punica (noto come battaglia delle Egadi) di cui già la scorsa estate sono state individuate e recuperate importantissime testimonianze. Nell'estate 2011, infatti, sono stati trovati altri due rostri, numerose anfore (una ottantina quelle integre individuate e databili tra il IV e il I secolo avanti Cristo) e altri tre elmi montefortini. Dei due rostri in bronzo recuperati all'incirca un anno fa uno riporta una iscrizione a rilievo in latino ricollegabile alla battaglia che sancì la conclusione della prima guerra punica, mentre degli elmi due soltanto erano integri. Le ricerche, la cui conclusione è prevista per la fine di questo mese, sono condotte con la collaborazione di Capitaneria di Porto di Trapani, sommozzatori della Guardia costiera, personale dell'Area marina protetta delle Egadi, Shipping agency di Luigi Morana, marineria, diving e subacquei locali. Il compartimento marittimo del capoluogo quando è stata avviata questa nuova campagna di ricerche di reperti archeologici sommersi nel mare eguseo ha emanato una ordinanza che, per l'intero periodo, impone a qualsiasi tipo di imbarcazione in transito nella zona in cui opera la nave oceanografica «Hercules» di mantenersi a una distanza di sicurezza che non sia inferiore a cinquecento metri. Margherita Leggio

mercoledì 8 agosto 2012

Nella Domus del ragazzo con il delfino

Nella Domus del ragazzo con il delfino
VENERDÌ, 29 GIUGNO 2012 IL TIRRENO - LUCCA
Così un privato ha riportato alla luce un tesoro di epoca romana
LUCCA Spettacoli e archeologia, un binomio vincente. Senza rischi di sfociare nel folklore. Ne è sicura Elisabetta Abela, tra i protagonisti delle iniziative lucchesi delle Notti dell'archeologia. Sarà lei a spiegare (il 27 luglio), tutti i segreti di uno degli ultimi scavi da lei condotti: quello della Domus romana del fanciullo. Una scoperta particolare non solo per la sua natura - è un'abitazione patrizia nel cui portico è stato trovato il disegno di un fanciullo con il delfino - ma anche per come è avvenuta. A commissionare lo scavo, infatti, è stato un privato che non ha badato a spese quando l'archeologa gli ha prospettato la possibilità che nella cantina del suo palazzo ci fosse qualcosa di molto importante. Il proprietario ha dato carta bianca ad Abela e, una volta terminata la ricerca, ha voluto che l'area rimanesse visibile al pubblico, al contrario di quanto avviene per la maggioranza degli scavi. La Domus, quindi, sarà una delle attrazioni delle Notti lucchesi, con una visita e assaggi di cibi della cucina dell'Impero romano. Un abbinamento, con la gastronomia e con tutto quello che attrae gente, che secondo Abela fa bene all'archeologia «perché la porta fuori dagli ambienti accademici - dice - e la fa conoscere a tutti. E il rischio che si faccia troppo folklore non c'è finché a lavorare ci sono professionisti seri e preparati».

martedì 7 agosto 2012

PIAZZA ARMERINA. tutti i numeri del monumento

PIAZZA ARMERINA. tutti i numeri del monumento
La Repubblica 30-06-12, pagina 15 sezione PALERMO
LA DECORAZIONE della Villa del Casale è composta da oltre 120 milioni di tessere musive distribuite su 4103 metri quadri di superfici pavimentali musive e in opus sectile. La dimensione delle tessere va da 4 a 6 millimetri: ce ne sono 36 mila per ogni metro quadro. Al restauro dei mosaici hanno lavorato 50 giovani restauratori provenienti da tutta Europa. Sul 70 per cento dei 2.748 metri di murature storiche, rivestite all' esterno di pannelli di schiuma minerale che hanno la funzione di isolare termicamente la struttura, si trovano dipinti murali. La struttura della Villa comprende quattro edicole e tre sculture marmoree, mentre c' è una grande fontana al centro del grande peristilio e sette fonti decorate a mosaico. Del centinaio di colonne che adornavano i vari ambienti ne sono rimaste 54 in situ, mentre sono presenti anche 14 capitelli e 44 basi in marmo. Il progetto di restauro, firmato da Guido Meli, che ha coordinato il gruppo di lavoro del Centro regionale per la progettazione e il restauro dell' assessorato ai Beni culturali, è finanziato tramite le risorse del Por Sicilia 2000/2006: l' importo complessivo è di 18.277.250 euro di cui a base d' asta 13.755.055,30 più somme a disposizione dell' Amministrazione regionale per 4.552.194 euro.

lunedì 6 agosto 2012

Tracce di storia romana riemergono a Gangi

Tracce di storia romana riemergono a Gangi
Valeria Ferrante
La Repubblica - Palermo 24/7/2012
Gli scavi nell’abbazia riportano alla luce reperti del I secolo avanti Cristo
«C’È PRESSO Engium (Gangi) un tempio dedicato alle dee Madri, il più ricco di Sicilia, ove anche Scipione l’Africano, reduce dalle sue vittorie, lasciò in voto tutto il suo bottino. Molte furono le statue e i tesori che Verre con mano sacrilega asportò. Ma non osò toccare la bronzea lastra su cui lasciò, a ricordo, inciso Scipione il suo nome... «. Così scriveva Cicerone nel 70 avanti Cristo “In Verrem”, per sostenere l’accusa contro il pretore delle Sicilia Gaio Licino Verre. Qui il celebre retore tracciava il profilo di Gangi come di una città municipale romana: un luogo vivo ove si innalzava il tempio della Magna Mater, da egli definito «augustissimum et religiosissimum fanum». Adesso all’Abbazia Gangivecchio le indicazioni date da Cicerone a proposito dell’antica Engium, vengono avvalorate dalla recente scoperta di una antico edificio romano databile presumibilmente I secolo avanti Cristo, che testimonierebbe, insieme al ritrovamento di altri reperti — mosaici, ceramiche e oggetti vitrei — l’esistenza in quest’area di un ricco insediamento romano. «Si tratterebbe di scoperte che permetterebbero di ricostruire in maniera scientifica e “moderna” la storia di questa zona delle Madonie » sostiene la professoressa Fabiola Ardizzone, docente di Archeologia medievale all’Università di Palermo, che coadiuvata dal professor Glenn Storey dell’Università dello Iowa, ha curato gli scavi all’interno dell’antica Abbazia di Gangi. «Quest’area era considerata infatti strategica nella viabilità dell’epoca romana», prosegue la storica. Sarebbe ancora Cicerone a ricordare l’esistenza proprio di una strada molto importante che passava nei paraggi di Engium e che collegava Catania alla costa tirrenica attraversando l’entroterra, un tempo interamente coltivato a grano. In epoca successiva questa grande via divenne collegamento essenziale per il movimento delle truppe bizantine da un capo all’altro dell’isola. Ma la storia di Gangi, non si conclude qui: è molto più antica secondo gli archeologi, che hanno intenzione di portare avanti le loro ricerche. Secondo lo storico greco Diodoro Siculo, infatti, a fondare Engium sarebbe stata una colonia di cretesi venuti con Minos, ai quali, dopo la guerra di Troia, si unirono i coloni guidati da Morione. Un altro tassello interessante è quello rappresentato dai ritrovamenti di periodo altomedievale, VIII-IX secolo, testimonianza di una parte della storia che finora risulterebbe oscura e che poco a poco andrebbe riemergendo dalla viscere della terra. «Dai materiali fin qui raccolti ciò che appare più evidente è una continuità di vita del sito dal I secolo avanti Cristo sino alla fine dell’età bizantina in Sicilia, ovvero la seconda metà del IX secolo dopo Cristo. Tutto ciò inoltre è avvalorato dal rinvenimento di tessere di mosaico, ceramica fine da mensa, oggetti di vetro e altri di età bizantina — afferma la professoressa Ardizzone — Inoltre sarebbe proprio questa continuità dell’iter storico a permetterci di seguire nel tempo, la vita e le trasformazioni che ha subito l’insediamento, prima durante l’epoca romana, poi durante quella alto medioevale, infine divenendo luogo di stanziamento dell’esercito bizantino impegnato nel tentativo di resistenza all’avanzata islamica nel territorio». Quella in corso è solamente la prima parte della campagna di scavi avviata nell’area dell’Abbazia di Gangivecchio, che l’equipe dell’Università di Palermo e quella dell’Università dell’Iowa ha appena concluso. L’obiettivo però è portare avanti un progetto di ricerca sull’insediamento e sul territorio limitrofo tanto che per giugno — luglio dell’anno prossimo è stato fissato l’avvio per la seconda campagna di scavi. Negli anni Settanta l’Ecole Française de Rome e l’Università di Palermo avevano intrapreso alcune ricerche archeologiche proprio in quest’area, sottolineando l’importanza di questo sito pluristratificato in cui la storia della Sicilia romana si collegava a quella medievale. Nel 2000 invece l’Università dell’Iowa aveva effettuato a Gangi una serie di indagini geognostiche e di prospezioni che hanno permesso di aggiungere informazioni e dare consistenza archeologica a questo importante insediamento. Oggi a distanza di 40 anni il sogno sembrerebbe realizzarsi anche grazie all’iniziativa di alcuni mecenati che acquistando l’Abbazia di Gangivecchio hanno deciso di finanziare gli scavi, creare un dialogo tra gli enti pubblici, Comune di Gangi, Soprintendenza, Università e naturalmente i privati. Sull’intero complesso monasteriale Tenuta di Gangivecchio, vi è infatti in atto un progetto non solo culturale ma anche imprenditoriale. A parlarne è Marco Giammona, amministratore delegato della tenuta Gancivecchio: «Investire oggi in cultura è l’unico antidoto contro la crisi. Non possiamo starcene con le mani in mano a guardare gli alti e bassi dello spread, perché non risolveremmo alcun problema. Abbiamo quindi deciso di fare un’operazione diversa, forse controcorrente, e cioè puntare sui beni artistico culturali, presenti sul nostro territorio. Prima di tutto recuperando un luogo di eccezionale bellezza che è l’Abbazia di Gangivecchio, ed avviando lì un prestigioso progetto residenziale, nel rispetto dell’architettura preesistente — un convento benedettino del Quattrocento — infine sovvenzionando interamente la campagna di scavi archeologici che abbiamo voluto fosse composta da due referenti scientifici d’eccezione».

domenica 5 agosto 2012

Sotto i mosaici la vita segreta dell’antica Claterna

Sotto i mosaici la vita segreta dell’antica Claterna
La Repubblica - Bologna 27/6/2012
Appartiene con ogni probabilità ad un fabbro, vissuto nel I secolo avanti Cristo, la «domus» emersa nell’ultima campagna di scavi a Claterna, la città romana che sorgeva lungo la via Emilia nei pressi di Ozzano, alle porte di Bologna. Il reperto più prezioso individuato nella casa è un grande pavimento a mosaico, oggi finalmente visibile per intero (oltre tre metri per lato), realizzato nella tecnica del cocciopesto, con una decorazione di tessere bianche e nere che formano un reticolato decorato con motivi a rombo e a rosetta. Ma gli archeologi che hanno eseguito il lavoro, con il coordinamento di Claudio Negrelli dell’Associazione Civitas Claterna, leggono nella terra tracce invisibili ad occhi inesperti. «Ci sono segni inequivocabili che testimoniano come qui si svolgesse un’attività di fabbriceria — spiega Negrelli — Si vede dalla terracotta che si sbriciola, e ci sono zone bruciate, zone dove si è battuto. Per noi è già la “Casa del Fabbro”». Ma la scoperta permette un’altra lettura dell’antica città, come spiega il soprintendente Filippo Maria Gambari. «Il ritrovamento di oggi chiarisce l’andamento stratigrafico del sito che dimostra la longevità del centro abitato. L’anno scorso siamo partiti dai resti di una dimora risalente al VI secolo d. C. e oggi scopriamo che venne costruita sulle basi di un insediamento risalente all’epoca repubblicana. È un fatto curioso che la città sopravvisse fino al VI secolo, quando invece entrarono in crisi tutti i centri lungo la via Emilia. Evidentemente si trattava di uno snodo commerciale importante che teneva aperti raccordi anche verso l’Appennino. La crisi comunque, alla fine, arrivò anche per Claterna, che infatti non avrà una continuità medievale». Alla campagna di scavo, condotta da Maurizio Molinari e Alessandra Tedeschi per l’Associazione Civitas Claterna, e realizzata grazie al sostegno economico di privati (Crif, Ima, Cuticonsai), hanno partecipato studenti delle Università di Bologna, Ferrara, Venezia. E proprio l’attività didattica e sperimentale potrà costituire la futura anima del sito archeologico. «La crisi economica e i progetti di ricostruzione post-terremoto sottrarranno inevitabilmente fondi che erano destinati a progetti di riqualificazione dell’area — spiega ancora Gambari — Per questo abbiamo elaborato un nuovo indirizzo di valorizzazione del sito, nell’idea di creare un centro di sperimentazione sui materiali che coinvolgerà università e privati. In questo modo si verrebbe a creare un’area di qualificazione anche per il distretto produttivo circostante che partecipa alla vita di scavo». I materiali sono in fase di restauro e in futuro potrebbero essere presentati in una mostra.

sabato 4 agosto 2012

Piazza Armerina, torna a splendere la Villa imperiale del Casale

Piazza Armerina, torna a splendere la Villa imperiale del Casale
ALBERTO BONANNO
30 giugno 2012, LA REPUBBLICA
Sono serviti diciotto milioni di spesa, per tre quarti a carico dell’Unione europea, per ridare il lustro che il sito simbolo dell’archeologia siciliana aveva perso da troppo tempo. Fino a pochi anni fa le celeberrime scene di caccia apparivano offuscate da una patina grigiastra, qua e là chiazzata da gocce d’acqua e macchie di umidità. Da mercoledì l'apertura al pubblico Piazza Armerina, torna a splendere la Villa imperiale del Casale Uno dei mosaici restaurati alla Villa del Casale PALERMO - È un paradosso siciliano ante litteram. Nel 1881 l’ingegnere Luigi Pappalardo cominciò a scavare nella valle del fiume Gela trovando i primi resti di quello che sarebbe diventato il monumento simbolo della Sicilia, la Villa romana del Casale di Piazza Armerina. Quei mosaici, portati alla luce nella loro interezza in successive campagne di scavo durate fino agli anni Cinquanta, erano perfettamente conservati grazie a migliaia di tonnellate di fango precipitato dai costoni sovrastanti a causa del disboscamento dissennato praticato da chi aveva abitato quei luoghi. Avevano resistito ai Vandali, ai Goti e alla furia devastatrice del re normanno Guglielmo “il Malo”, che nel XII secolo rase al suolo quanto restava della residenza patrizia di Massimiano Erculeo, tetrarca di Diocleziano incaricato di importare le bestie feroci per i giochi di Roma, che in quel luogo era andato a ritirarsi una volta esautorato dall’imperatore. (...) E forse sono stati proprio gli occhi di Massimiano — o di Proculo Papulonio, altro probabile proprietario della domus — gli ultimi a vedere quei mosaici e quei pavimenti nello splendore di colori e di fantasia in cui appaiono oggi, dopo un restauro lungo sei anni. Diciotto milioni di spesa, per tre quarti a carico dell’Ue, per ridare il lustro che il sito simbolo dell’archeologia siciliana aveva perso da troppo tempo: fino a pochi anni fa le celeberrime scene di caccia, le fantasiose figure zoomorfe, le incantevoli geometrie delle decorazioni destinate a conquistare il turista, apparivano offuscate da una patina grigiastra, qua e là chiazzata da gocce d’acqua e macchie di umidità, chiuse in una teca infernale di metallo, vetro e plastica in cui il caldo d’estate e il freddo d’inverno erano capaci di rendere la visita un autentico tormento. Al di là del fatto che la luce, filtrata dalle coperture, stravolgeva i colori già resi uniformi dai depositi superficiali. Particolari che avevano mandato su tutte le furie lo scrittore Vincenzo Consolo, che nel 2004 aveva confidato proprio a “Repubblica” tutta l’amarezza provocata da una sua visita a Piazza Armerina. (...) Da allora a oggi il progetto di recupero, elaborato dal gruppo del Centro regionale del restauro coordinato dal direttore del Parco archeologico Guido Meli, e messo in atto da cinquanta giovani restauratori di tutta Europa diretti da Roberta Bianchini, si è finalmente concluso. E mercoledì si rivelerà al pubblico. Un progetto sul quale aveva scommesso il commissario straordinario della Villa, il critico d’arte Vittorio Sgarbi, e da par suo contrassegnato da feroci polemiche, scontri e battaglie. (...) Ora la struttura-fornace di protezione degli anni Sessanta è stata rimossa e sostituita con una copertura ventilata in legno, che rende giustizia a un patrimonio decorativo unico in Italia, realizzato tra il III e il IV secolo dopo Cristo da artisti nordafricani di incredibile maestria, gli stessi che portarono in Italia l’arte del mosaico. "Il momento più difficile — spiega Meli — è stato sicuramente la posa della copertura, perché essendo una struttura prefabbricata, abbiamo dovuto risolvere una serie di problemi per incastrare i vari pezzi e montarla alla perfezione". Un vero e proprio polmone capace di far respirare mosaici e affreschi e mantenere il microclima ideale. Come i maestri africani, i cinquanta restauratori hanno lavorato chini sui 120 milioni di tessere, ripulendole una per una della patina di finitura, che si è scoperto essere poi la causa della proliferazione di funghi, incrostazioni e microalghe, combinata con l’effetto serra della copertura. Ora resta il problema dei visitatori, nell’ultimo anno dimezzati rispetto alla media annua di 500 mila presenze a causa del cantiere infinito. Un calo di cui ha risentito non poco anche l’economia del luogo e l’indotto generato dal turismo. "Il nostro è stato uno sforzo enorme — dice l’assessore regionale ai Beni culturali Sebastiano Missineo — perché la Villa non è mai stata chiusa del tutto. Stiamo riconsegnando al mondo un sito più bello. E ci sarà anche l’opportunità di visitare la villa anche di sera, una suggestione straordinaria che speriamo contribuisca a riportare i visitatori ai numeri precedenti, anzi li superi". E Missineo, incurante dell’annuncio di dimissioni del governatore Lombardo per fine luglio, rilancia: "Il nostro obiettivo è di raggiungere almeno 600 mila presenze ogni anno".

venerdì 3 agosto 2012

Mille anfore del I secolo a.C. Nel sotterraneo antichi resti romani

Mille anfore del I secolo a.C. Nel sotterraneo antichi resti romani
IL TEMPO 03/07/2012


Il mercato di Testaccio custodisce un patrimonio archeologico venuto alla luce proprio durante i lavori per costruire la nuova struttura.

Sopra i banchi, che si estendono su una superficie di 5 mila metri quadri. Sotto la zona archeologica con mille anfore risalenti a un periodo che va dal I secolo a.C. al I secolo d.C. Ieri mattina, al termine dell'inaugurazione, il sindaco Alemanno ha voluto fare un piccolo tour nei sotterranei per vedere in prima persone le meraviglie resuscitate dall'antichità. Al momento questa area non è ancora aperta al pubblico. I lavori di restauro e la creazione di un percorso per i visitatori devono ancora essere portati a termine. Assieme ad Alemanno c'era l'archeologo Renato Sebastiani che ha spiegato: «Durante la realizzazione del nuovo mercato abbiamo ritrovato circa mille anfore da vino e salsa di pesce risalenti al periodo tra il I secolo A.C. e il I secolo D.C.: una sorta di discarica di anfore antiche, ma anche dei magazzini composti da muri di anfore. Il nostro obiettivo è rendere tutta l'area aperta e visitabile e pensiamo di metterci un paio di anni». Si tratta di una sorta di «discarica» di materiale di risulta dell'antico porto di Testaccio. Le anfore, una volta utilizzate per il trasporto marittimo, venivano accantonate e utilizzate per realizzare dei muretti.

mercoledì 1 agosto 2012

Gioielli e acquedotti, la vita segreta del Colosseo

Gioielli e acquedotti, la vita segreta del Colosseo
Laura Larcan
La Repubblica - Roma 27/7/2012
La nuova campagna di scavi porta in luce le tubazioni medievali e le fondazioni originarie
DA PALCOSCENICO per l’epopea dei gladiatori a residenza aristocratica, in cui le abitazioni erano dotate di un raffinato sistema di infrastrutture idrauliche. Il Medioevo ha segnato una vera e propria seconda vita per l’Anfiteatro Flavio, lontana dai fasti imperiali che ne avevano fatto una grandiosa macchina per spettacoli, e ancora quasi sconosciuta. È una storia legata alla presenza di inquilini illustri, i Frangipane; una potente famiglia antipapale che tra il XII e il XIII secolo scelse il Colosseo come roccaforte di prestigio per il controllo delle vie che portavano all’insediamento pontificio del Laterano. A svelarla è ora la squadra di 28 studenti universitari di Roma Tre, della Cattedra di archeologia urbana di Roma, che per quattro settimane hanno scavato al Colosseo nell’ambito della convenzione con la Soprintendenza per i beni archeologici. Sotto la guida scientifica della direttrice del Colosseo, Rossella Rea, e del professore Riccardo Santangeli Valenziani, l’operazione si è concentrata in una galleria sottoscala lungo il primo ordine del Colosseo, sul lato meridionale. «Qui è riemerso — spiega Santangeli Valenziani — un sofisticato sistema di raccolta e conservazione delle acque piovane, con canalette a due livelli che funzionavano da zone di decantazione per purificare l’acqua, che confluiva poi, con una cascatella di circa 50 centimetri, in una vasca usata come cisterna». Una scoperta preziosa, che fa luce sul livello di organizzazione della vita quotidiana del Colosseo dopo l’ingresso dei Frangipane, anche perché fino ad oggi non esistevano testimonianze di infrastrutture idrauliche di epoca medievale: «Tra l’XI e il XII secolo, l’utilizzo dell’edificio era solo episodico, con ambienti separati che venivano dati in affitto — avverte Rea — Invece con l’arrivo dei Frangipane l’Anfiteatro viene gestito per le esigenze di un grande insediamento aristocratico, con un proprio sistema idraulico ». Al punto che il palazzo della famiglia Frangipane occupava ben due livelli del monumento, per 18 gallerie. Nelle indagini al livello della pavimentazione originale non sono mancate le sorprese, come il ritrovamento di tre gemme databili al I secolo d. C.: una corniola finemente incisa con la figura di Apollo, un cristallo di rocca e un cameo di pasta vitrea. A una profondità maggiore, lo scavo ha rivelato anche le vertiginose strutture delle fondazioni originarie: sono riemersi giganteschi blocchi di travertino lunghi quasi due metri, e spessi 50 centimetri, che poggiano su un complesso sistema di due piattaforme alte complessivamente 13 metri. L’intera area scavata rimarrà a vista e, dopo la messa in sicurezza, entrerà a far parte del museo permanente del Colosseo. Quanto al restauro targato Tod’s, l’annuncio del sindaco Alemanno sull’avvio del lavori per il 31 luglio non è stato gradito al ministero dei Beni culturali, dove è stato giudicato uno «sgarbo istituzionale». Martedì prossimo, sottolineano infatti dal Mibac, non ci sarà affatto l’apertura del cantiere, ma una conferenza stampa nel corso della quale il ministro Ornaghi illustrerà il cronoprogramma dell’operazione insieme a Diego Della Valle e alla soprintendente Maria Rosaria Barbera, con la partecipazione del sindaco.